Gesù ci insegna a comportarci da fratelli (Mc 10, 35-45 - Mt 13, 1-5 - Mt 20, 20-28 - Lc 22, 24-27) - don Franco Barbero

Un giorno, mentre erano in viaggio, successe che Gesù rimase un po' indietro, attardato, a parlare con la gente. I discepoli lo precedevano forse di una ventina di metri, Gesù li sentiva discutere molto animatamente. Sembrava quasi che si arrabbiassero e bisticciassero tra loro. E sapete di che cosa discutevano? Ognuno dei discepoli, e qualcuno con particolare accanimento, pretendeva di essere il più importante, il più “bravo” del gruppo!

Gesù, quando capì questo loro strano discorso, si rattristò e pensò tra sé: «Sono con me da tanto tempo e ho insegnato loro un sacco di cose... Ho insegnato loro a volersi bene e ora… guarda un po' che discorsi mi vanno a tirar fuori! Allora è segno che non hanno capito niente di quello che ho insegnato loro. Soprattutto non hanno capito nulla del mio comportamento… Non vedono come io mi comporto?». Gesù era veramente amareggiato e deluso, ma sapeva bene che gli uomini e le donne sono fatti così... Perciò, senza perdere fiducia nei suoi discepoli, Gesù si industriò per aiutarli a uscire da questi pensieri meschini e ambiziosi. Quando si fermarono per un po' di sosta e tutto il gruppo dei discepoli gli fu intorno, Gesù si rivolse loro con dolcezza: «Sentite un po'; voglio parlarvi. Che razza di discorsi stavate facendo poco fa, mentre eravamo in cammino?». I dodici, colti alla sprovvista, non osavano dire a Gesù che discutevano di "posti", di "gerarchie", di chi fosse il più importante e il più in gamba tra di loro. Avevano un po' di vergogna a farsi vedere così... orgogliosetti.

Gesù allora, vedendo che erano imbarazzati, li aiutò: «Sedetevi un po' con me, disse loro, e parliamone da buoni amici. Perché discutete tanto per sapere chi conta di più, chi è più grande tra di voi? Sono i potenti, i signori, quelli che la fanno da padroni e vogliono dominare, che fanno simili discorsi. Ma tra di voi non sia così! Chi è più grande, chi è più in gamba, metta a disposizione degli altri la sua bravura, le sue capacità, cioè tutti i doni che Dio gli ha fatto. Non vedete come mi comporto in mezzo a voi? Mi comporto da padrone o sono pronto a mettermi a disposizione di chi ha più bisogno?». Gesù parlava dolcemente e lentamente, come se misurasse ogni parola. Poi continuò: «Io vi ho insegnato a comportarvi da fratelli, ad amarvi. Non cercate di diventare importanti, ma sforzatevi di vivere mettendovi a disposizione gli uni degli altri. Non vi ricordate quante volte ve l'ho raccomandato?».

Giunsero vicino ad alcuni fanciulli che giocavano e alcuni di essi si avvicinarono al maestro di Nazareth. Gesù ne accarezzò e ne abbracciò uno e, postolo nel mezzo, disse ai discepoli: «Diventate semplici come bambini e smettetela di preoccuparvi di essere uno superiore all'altro». Gesù, con molta insistenza e con molta pazienza, spiegava ai discepoli che questo davvero conta davanti a Dio. «É bello, è vero, dicevano i dodici, ma non ti sembra, Gesù, che sia un po' troppo difficile?». Gesù sorrideva e, guardandoli con tenerezza, diceva loro: «Ma perché dubitate? Quel Dio che aiuta me sosterrà anche voi. Dobbiamo aver fiducia in lui».

Poi Gesù, senza stancarsi, spiegava ai discepoli che a Dio non piacciono certe differenze. Dio non vuole che ci sia chi ha una bella casa e chi non ha nemmeno una capanna. Gli esempi che Gesù faceva erano ben chiari: a Gerusalemme ci sono i grandi capi dei sacerdoti che hanno lusso e ricchezze e, alla porta del Tempio, c'è una enorme schiera di mendicanti. Quando passa per la strada un maestro della legge, tutti lo salutano e gli fanno un inchino, ma se passa un povero contadino, un pastore o un mendicante, chi lo degna di uno sguardo? Gesù faceva notare tutte queste ingiustizie ai discepoli e diceva loro che nulla di tutto questo è voluto da Dio.

 

Bibliografia e annotazioni:

* Una delle "attenzioni" maggiori nella ricerca di gruppo è stata quella di accompagnare e stimolare il bambino nella scoperta del tessuto e dell'arco delle discriminazioni esistenti nella nostra società e dentro la trama del nostro vissuto quotidiano. Imparare a vedere, poi giudicare, analizzare, per decidersi.

* Con i più grandicelli ci è sembrato necessario far emergere l'ingiustificata e l’insostenibile (anche a livello esegetico e teologico) situazione della chiesa cattolica che resta una struttura sostanzialmente maschilista, che discrimina le donne e le esclude dalle responsabilità ministeriali. Ci è stato utile poter riportare, in senso positivo, la situazione di molte chiese cristiane nelle quali le donne sono ministre a tutti gli effetti e a tutti i livelli.

Sulla condizione della donna nella Chiesa Cattolica si vedano due opere semplicissime: M. HUNT-R. GIBELLINI, La sfida del femminismo alla teologia, Queriniana, Brescia 1980 e F. LONG-R. PIERRO, L'altra metà della chiesa, CNT, Roma 1980. Inoltre: COMUNITÀ DI SAN PAOLO, Il cristiano e la sessualità, CNT, Roma 1981.

* Sul tema della nostra accoglienza, della nostra apertura alla diversità ci sono serviti: AA. W., Concilium I/1984, Teologie diverse responsabilità comune: Babele o Pentecoste?, Queriniana, Brescia 1984; AA. W., La sessualità umana, Queriniana, Brescia 1978; YVES CONGAR, Diversità e comunione, Cittadella Editrice. Assisi 1983. Nell'illustrazione della pratica del "servizio" reciproco con i più grandicelli abbiamo riletto la lavanda dei piedi dal vangelo di Giovanni. Ci è parso importante insistere su una precisazione: l’uguaglianza non comporta l'eliminazione delle "diversità", ma delle ingiustizie. Le diversità costituiscono una ricchezza che possiamo e dobbiamo saper accogliere e valorizzare. Essere diversi è un valore ed è importante abituarci a rispettare e valorizzare la diversità nostra e altrui.

* Nel gruppo dei fanciulli abbiamo apertamente parlato della figura del papa. I bambini conoscono in fretta questa figura dai messaggi televisivi, dai nonni, dai discorsi che sentono. È importante aiutarli a farsi un'idea fondata sul vangelo. I nostri bambini con noi hanno rilevato nel papa (noi diremmo nella struttura del papato) uno stile e un modo d'essere molto lontano dal vangelo. Ne è uscita una serena e aperta riflessione di gruppo. Per poter riflettere e documentare ai fanciulli più grandi e più interessati ci è servito INFORMATUTTO Biblico Storico (Claudiana, Torino 1984, pagina 217 ss). È uno strumento agile, attendibile, seppure estremamente ed eccessivamente conciso. Abbiamo voluto parlarne con loro con molta tranquillità, senza alcun tabù. Del resto il discorso torna spesso in comunità. Per l’approfondimento teologico e storico ci è molto servito A.B. HASLER, Come il Papa divenne infallibile, Claudiana, Torino 1982 e soprattutto H. KUNG, L'infallibilità, Mondadori, Milano 1977.

* In questi ultimi dieci anni abbiamo attentamente studiato il problema.

1) Secondo noi sarà sempre più difficile sostenere che il dogma del papato, così com'è stato definito nel Concilio Vaticano I, sia “ricavabile" dal N. Testamento. Hasler non ci sembra lontano dal vero quando sostiene che «oggi quasi tutti i teologi e la massa dei credenti lo negano». Il Blank ci sembra persin troppo perentorio: «A partire dai pionieristici lavori di A. Vögtle (1958), nessun esegeta cattolico degno di questo nome dovrebbe più ammettere che nel Nuovo Testamento si possa rinvenire la chiara asserzione del primato papale e dell'infallibilità. La prova scritturistica, sulla quale allora si sosteneva il dogma, oggi non tiene più. Lo stesso vale per la prova tratta dalla tradizione dei padri» (Concilium 8/1981). Si tratta davvero, come da molte parti è stato proposto, di riprendere l'intera questione e dibatterne in tutta libertà nella chiesa cattolica e a livello ecumenico.

2) Non pensiamo che si possa ricavare da Gesù una precisa strutturazione della chiesa. Da lui ricaviamo, come normativo, lo spirito profondo che deve permeare anche le strutture: servizio e fraternità. Tanto più che l'ipotesi che i brani matteani e giovannei più “discussi” riproducano le "stessissime“ parole di Gesù (e non siano piuttosto redazionali), non trova quasi più credito (Fabris, Barbaglio, Schillebeeckx e moltissimi altri). Se è vero che con le sue parole e la sua azione Gesù, nel corso della sua vita, pose «i fondamenti per la nascita di una chiesa post-pasquale» (H. Kung), risulta però sempre più evidente che, nella sua forma concreta e storica, la chiesa si rifà alla decisione degli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo (L. Boff). L'idea che Gesù abbia fondato, nella previsione di un lungo futuro, una chiesa con ben precise strutture, con un magistero dottrinale, con un determinato numero di sacramenti, «traviserebbe la storia. Invece ci si deve chiedere e si deve tentare di descrivere come dalla comunità dei discepoli di Gesù sia nata la chiesa» (K.H. Schelkle). Sostenere che un determinato assetto istituzionale e strutturale discenda direttamente dalla volontà “costituente e fondatrice" di Gesù e presentarlo conseguentemente come volontà di Dio, significa mettere tra parentesi tutto un cammino storico ormai ampiamente documentato. Ecco perché è possibile leggere i testi biblici in questione (tra gli altri Matteo 16, 18-19 e Giovanni 21) non come l’eco delle precise parole di Gesù "costituenti" un modello canonico di chiesa, quanto come una decisione post-pasquale dei discepoli, i quali crearono e assunsero quelle forme istituzionali che, lungi dall'essere sacre ed immutabili, erano ai loro occhi il tentativo di tradurre, nelle comunità di allora, anche a livello strutturale, l'istanza normativa del servizio ricevuta da Gesù. Ma è innegabile che già nel N. Testamento noi troviamo diverse esperienze ecclesiali e diverse ecclesiologie, per cui il richiamo al N. Testamento può certamente legittimare forme anche molto diverse di strutturazione ecclesiale. L'assetto istituzionale della chiesa è e deve rimanere opera delle nostre mani, soggetta ai processi evolutivi di ogni strutturazione "sociale", tanto più che l'evangelo di Gesù è forza critico-creatrice di conversione anche strutturale. «Né le vecchie strutture ecclesiastiche, né le nostre esigenze di riforme strutturali si lasciano fondare direttamente sulla Bibbia; non le potremo quindi nemmeno assolutizzare» (Ed. Schillebeeckx). Come ci sembra antistorico pensare ad una chiesa totalmente destrutturata, così ci pare antievangelico avvolgere le strutture della chiesa nel manto della sacralità e della intangibilità. È comprensibile che una istituzione spesso tenda ingiustamente a identificare tradizioni antiche, anche venerande, come immutabili ordinamenti divini. È più grave se si considera dogmaticamente intoccabile una decisione che non può nemmeno invocare una tradizione antica e indiscussa. Come è nel caso del papato e della infallibilità.

3) Se relativizziamo il discorso sulle strutture per ricentrare tutta la nostra ricerca comunitaria e personale sull'evento Gesù, saremo forse più disponibili alla testimonianza e alla predicazione dell'evangelo del Regno: l'unica cosa costitutiva per la nostra fede, oggi così sfidata e così stupenda. Purtroppo, ripercorrendo la storia del Pontificato Romano da questo punto di vista, si deve dolorosamente constatare che esso è più parente delle dinastie faraoniche che non vicino allo spirito del servizio fraterno insegnatoci da Gesù. Certo, non si può semplificare e non giova demonizzare, ma il papato è stato in larga misura prigioniero del potere, della diplomazia, dell'arroganza di una struttura che ha sacralizzato se stessa. Le carezze di Satana e le prostituzioni del potere spesso lo hanno sedotto.

4) «A mio avviso l'ammissione della storicità del dogma contiene in sé la ammissione della possibilità d'errore nelle decisioni di fede. Ed è immediatamente evidente che, se si è verificato un errore, non ci si dovrebbe liberare della questione con una nuova interpretazione, ma si dovrebbe parlare onestamente di revisione» (G. Denzler).

5) Forse un articolo di fede che dovrebbe accomunare tutte le chiese cristiane, tutte le assemblee, i sinodi e i concili e tutti i ministeri potrebbe suonare così: «O Dio, noi crediamo in te. Tu solo sei la Verità che in Gesù si è manifestata a noi che siamo e restiamo, tutti e sempre, ampiamente fallibili. Tutti, nessuno escluso.

6) Ci sembra urgente e possibile passare dal papato-primato infallibilità ad un ministero di Pietro, inteso come servizio di unità e di fraternità. Un ministero di Pietro che si proponesse all'ecumene cristiana, senza imporsi, lasciando cadere il primato di giurisdizione e l'infallibilità, non potrebbe rappresentare un bene ecumenicamente prezioso per le chiese cristiane che, eventualmente a rotazione e ad tempus, potrebbero eleggere a tale servizio uomini e donne di diverse confessioni? In tal caso credo che raccoglieremmo un'esperienza presente nel N. Testamento (accanto a tante altre) e non ci scosteremmo dallo spirito del servizio essenziale all’evangelo di Gesù. In ogni caso però tale ministero non è necessario. Si può benissimo strutturare una chiesa cristiana senza il ministero di Pietro.

7) Ci rendiamo benissimo conto che anche il Concilio Vaticano II su questo terreno non è andato oltre un forse necessario equilibrio delle posizioni. Le diverse ecclesiologie presenti nei documenti conciliari hanno dato vita ad un "compromesso delle formule" che «consiste nel trovare una formulazione che soddisfi tutte le richieste in contrasto tra loro e che lasci irrisolti i veri e propri motivi di conflitto mediante una formulazione polivalente» (C. Schmidt). La patata bollente è stata, dunque, lasciata a noi, ma dentro il concilio esiste una tensione salutare e profonda che ha lasciato tracce ben visibili nell'ambiguità e ambivalenza delle formulazioni conciliari: è il problema della collegialità e della sinodalità. Oggi «la chiesa cattolica si regge nel quadro di un sistema autoritario» (L. Boff) e ciò in riferimento alla sua struttura, anche in presenza di pastori dallo stile giovanneo. Vogliamo dire che occorre arrivare ad un tipo di struttura in cui tutti possano concorrere alla formazione delle decisioni o, almeno, il maggior numero possibile. Molti chiamano questa partecipazione reale alle decisioni rilevanti della chiesa la sinodalità, la pratica sinodale. Finché il sinodo dei vescovi vivrà in rapporto di eterna dipendenza, come scrive Tillard, dal papa, noi avremo una koinonia "parziale" ed una sinodalità zoppicante. «Ora, la tendenza dominante dei regolamenti sinodali post-conciliari è quella di riservare al vescovo il potere deliberativo e di ridurre gli altri partecipanti a un ruolo puramente consultivo» (J.M. Tillard). A livello del rapporto tra papa e vescovi e a livello diocesano il primo passo ci sembra proprio qui: costruire dei sinodi deliberanti che superino le assemblee costitutive. Ci rendiamo benissimo conto di toccare un tasto delicato, ma le formule organizzative sono tutte modificabili perché non sono di diritto divino. Siamo d’accordo su questo? Nessuno pensi che noi invochiamo una facile democrazia o un livellamento ecclesiale che minimizzi il servizio specifico del ministero anche ordinato. Vogliamo solo bollare i guai di una concezione della "comunione" ossessionata dalla dipendenza gerarchica. La stessa dizione “comunione gerarchica" che la "Superiore Autorità" impose ai Padri conciliari e che entrò poi a far parte della Costituzione dogmatica della Chiesa, risulta estremamente ambigua. Se il vocabolo "comunione" lascia trasparire un fecondo orizzonte ecclesiologico, nato da un lungo travaglio ecclesiale e fortemente radicato nel dato biblico (A. Acerbi e K. Walf), l’aggettivo “gerarchica” apre la strada ad una interpretazione riduttiva della teologia della comunione perché ripropone come centrale l’istanza autoritaria. Di fatto la comunione gerarchica ha registrato la fagocitazione del sostantivo da parte dell’aggettivo e si è tradotta in poco più che nell’obbedienza ai superiori gerarchici.

8) Il passaggio dal papato infallibile al ministero di Pietro non favorirebbe anche un approccio alla figura di Pietro discepolo così come, con le sue luci e le sue ombre, ci viene proposta nell’evangelo? Ci pare che, specialmente noi cattolici, siamo colpevoli e recidivi in modo particolare nei confronti di Maria e di Pietro di un reato di violenza teologica continuata perpetrato ad uso ecclesiastico e devozionalistico. Abbiamo violentato Maria, quella ragazza di Nazareth, schiacciandola sotto una montagna di dogmi e di privilegi, tanto che abbiamo corso il rischio di negarla come donna e di sottovalutarla come credente. Poi l'abbiamo trasportata in cielo, quasi a servizio dei nostri castelli dogmatici. Ora ci accorgiamo che questa lunga serie di «dogmi che non è possibile giustificare in modo universalmente persuasivo né con la scrittura, né con la tradizione, né con postulati teologici» (H. Kung), comincia a pesare come un fardello ingombrante. Occorre restituire Maria a se stessa e alla sobrietà esemplare dei dati dell’evangelo liberandola dai troppi lacci dogmatici. Così la sua fede tornerà a parlare a tutti noi! La grandezza di Maria è tutta in Colui che l'ha ricolmata di grazia. Così per Pietro. Perché strumentalizzarlo ad uso e consumo di una ecclesiologia piramidale, giuridica e marcata dal virus dell’onnipotenza? Torniamo al Pietro dell'evangelo, sabbia friabile che Dio ha trasformato in roccia e abilitato ad un servizio di edificazione in una Chiesa comunità delle origini. Guardiamo a lui come discepolo e allora come non essere affascinati dalla sua testimonianza di fede per l'azione di Dio nella sua vita? Solo a colpi d’evangelo possiamo convertirci dalla manìa violentatrice alla quale accennavamo prima. Si tratta di recuperare la genuinità e i lineamenti di un servizio all'interno della loro vita di fede.

9) Forse il tempo degli infallibili è finito ovunque: al Cremlino, alla Casa Bianca e anche in Vaticano. In questa ottica le formulazioni dogmatiche del passato potranno svolgere l'insostituibile servizio dei cartelli indicatori, di frecce stradali verso la verità, di luoghi di confronto storicamente datati e leggibili e documenteranno anche parzialità e incidenti di percorso. Non si tratta di compiere sommarie liquidazioni, ma di non sclerotizzare delle formule come se fossero delle ideologie rigide che ostentano la pretesa di fotografare la verità. Solo l'evangelo è la parola che resta in eterno.

* Nel nostro lavoro di ricerca siamo stati notevolmente stimolati dal volume del teologo cattolico Leonardo Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1983. Da questo libro, pacato e per nulla avanguardista, citiamo alcuni passi che ci sembrano particolarmente utili e stimolanti.

«Qualunque articolo su riviste teologiche, di carattere scientifico o di spiritualità, che non si armonizzi con un certo tipo di interpretazione episcopale, o che avanzi ipotesi ideologiche di fronte ai nuovi problemi che sorgono nella società, provoca reazioni, spesso violente, con minacce di destituzione del redattore o di fargli affrontare un processo dottrinale presso le istanze superiori.

Ci sono diocesi in cui il sacerdote conferenziere può parlare ai religiosi o a gruppi di sacerdoti solo dopo aver compilato un formulario, il cui tenore quasi equivale a un interrogatorio giudiziario in altri posti, per il semplice fatto di essere teologo, si è già in sospetto di eresia, di difesa di proposizioni pericolose e di contrapposizione all’autorità costituita. L’ignoranza di molti vescovi viene surrogata dal loro autoritarismo; il quale si sottrae a ogni razionalità, non sapendo ripetere altro che i pronunciamenti pubblicati dall'Osservatore Romano, fino alla monotonia. L’insicurezza genera violenza e l’abbassamento dell'altro è la controfaccia dell’autoaffermazione. Non ci si deve dunque meravigliare se il servilismo e la piattezza caratterizzano la produzione culturale cattolica. Dom Hélder Câmara ha coniato un'espressione che riassume tutto un discorso; gran parte della stampa cattolica è succube del matrimonio che il diavolo ha introdotto nella chiesa: quello della mediocrità che si unisce al cattivo gusto. Tale connubio spurio deriva dall’eccessivo controllo ideologico sull’intelligenza» (pag. 63). «Alla chiesa attuale mancano gli strumenti politici di potere per esercitare violenza contro gli accusati di eresia; ma la mentalità di fondo e le procedure hanno mutato ben poco. Se le torture fisiche sono state abolite, ancora perdurano quelle psichiche» (pag. 64). Boff si muove, com’è possibile constatare, sul piano dell’analisi dei fatti. Egli rileva i meccanismi strutturali, li mette alla luce. Compie, dunque, il tipico servizio del teologo ed esercita la libertà propria di ogni cristiano.

«Una delle cause esplicative è senza dubbio la struttura di potere nella chiesa. In termini decisionali il perno gira intorno al papa, al vescovo e al prete, con esclusione dei laici e dei religiosi. Sotto l'angolatura sociologica, la chiesa si regge sui quadri di un sistema autoritario. Per autoritario si intende un sistema nel quale i gestori del potere non necessitano di un riconoscimento libero e spontaneo dei sudditi per costituirsi ed esercitarlo. L'autorità si contraddistingue dal potere e dal dominio per la libera e spontanea sottomissione di un gruppo di uomini a un altro uomo o istituzione Separata da queste condizioni naturali di rapporto, l’autorità si trasforma in autoritarismo.

Nella chiesa, il sistema di potere si crede e si presenta come proveniente direttamente da Dio ai fedeli, che devono accoglierlo nella fede. La socializzazione per mezzo della catechesi, della teologia e dell’esercizio accettato della struttura del potere garantisce la gestione della stessa struttura di generazione in generazione. È fuori discussione che ogni vera autorità umana soggiace all’autorità divina. Questo vale in modo eminente per la chiesa di Cristo. Ma il problema che si pone è se la struttura attuale di potere può invocare direttamente la propria origine divina, nei vari meccanismi della sua diversificazione (papa-vescovo-presbitero-laico), o se questi meccanismi procedono dall'impatto storico della chiesa e dell'autorità divina. È possibile, in buona teologia e con il supporto di un filone che viene dal Nuovo Testamento, sostenere che l'autorità di Cristo è presente, in senso primario e fondamentale, in tutta la chiesa, corpo di Cristo; e che solo in seguito si differenzia organicamente nei suoi diversi gestori (papa, vescovi, ecc.). Le forme di concretizzazione apparterrebbero al contributo delle diverse situazioni culturali» pagg. 69-70).

Le persone non corrono il rischio di essere succubi delle ferree leggi dell'istituzione? Le ragioni dell’istituzione tendono a sopprimere lo spazio delle persone.

«La verità viene sostituita dalla sicurezza interna del sistema. Si creano scismi nell’amputazione di quei movimenti che non si lasciano inquadrare nelle maglie dell'istituzione. Ogni istituzione tende a ontocratizzarsi, cioè a trasformarsi in un sistema di potere e di repressione che esclude la creatività e l’autocritica. L'istituzione ha sempre a che fare con il potere. Ma, come affermava eccellentemente Lord Acton, ogni potere tende a corrompersi, e il potere assoluto a corrompersi assolutamente» (pag. 198). Sia ben chiaro: il Nuovo Testamento non ci autorizza a pensare la comunità in termini di caos o di totale destrutturazione, ma mai come su questo terreno diventa rilevante chiederci: "quale" autorità?

«L’autorità ecclesiale, che si situa nella tradizione di Gesù, deve fondarsi nell'uguaglianza dei fratelli (Gal 3,26-29: siete tutti uno in Cristo; Mt 23,8: voi siete tutti fratelli; Gc 2,2-4: non fate nessuna distinzione tra voi), nella fraternità che si oppone a qualsiasi culto della personalità, con le qualificazioni di maestro, padre, ecc. (Mt 23,8-9) e in un servizio che escluda ogni dominazione e pretesa di ultima istanza (Mc 10,42-45; Lc 22,25-27; Gv 13,14).

Tale autorità si è incarnata in modo diversa nella chiesa primitiva: nelle comunità paoline (Corinto) era strutturata carismaticamente; nella comunità di Gerusalemme aveva una struttura sinagogale (consiglio di presbiteri); nelle comunità delle epistole pastorali aveva una struttura centralizzata su dei delegati apostolici con il loro presbiterio, riducendo di molto la partecipazione di ciascun battezzato, che per Paolo era portatore dello Spirito. Ma poco importa la forma, si trattava sempre di un servizio. La linea che ha predominato, però, è stata quella delle lettere pastorali, dove compare la figura del ministro dotato di un potere ricevuto mediante l'imposizione delle mani e si dà origine, in tal modo, ai diversi ordini nella chiesa. Sta qui, in germe - ove non sia presente la mistica del servizio - quel fuoco che andrà poi divampando, come discriminazione tra fratelli di fede, a tal punto che gli ordinati si cattureranno l'intero potere nella chiesa. Questo fa certamente a pugni con l’intenzione fondamentale di Gesù. La forma centralizzata costituisce una forma di potere che per ragioni storiche (nel caso specifico, la minaccia dello gnosticismo) si può anche giustificare, ma che non può pretendere per sé una vigenza esclusiva per tutti i secoli a venire. La diversità delle forme di autorità presenti nel Nuovo Testamento suggerisce un'altra direzione. L’autorità era collegiale prima di essere monarchica» (pagg. 78-79).

L'elemento decisivo della chiesa dei primi tre secoli, tuttavia, non è stato l’aspetto istituzionale. L’unità era garantita dalla concordanza nella fede e dallo stesso coraggio per la martyria pubblica, e non delle strutture istituzionali. È vero che l'impatto con l'eresia ha obbligato la comunità a definire il Canone del Nuovo Testamento e la linea della successione apostolica, due grandi pilastri dell’istituzione ecclesiale. Ma la chiesa resta libera dal potere. È povera fatta di poveri. È ricca di contestatori della religione e della morale ufficiale, e per questo è consacrata dai martiri. Affermazioni audaci come quelle di sant’Ignazio «niente senza il vescovo, tutto con il vescovo» (Fil 7,1), o «i vescovi sono portatori di Cristo e portatori di Dio» (Magn 3,1; Sm 8,1); o «i diaconi si devono venerare come i comandamenti di Dio e lo stesso Cristo» (Tr 3,1; Sm 8,1), sono del tutto aliene da qualsivoglia episcopalismo posteriore. Perché qui vige non una visione giuridica e bramosa di potere, ma la visione mistica che vede il Christus praesens risorto farsi presente nelle persone carismatiche che disimpegnano funzioni di servizio e di unità nella comunità. L’autorità di tali persone deriva dal loro vivere in modo esemplare il mistero di Cristo e non ancora dal potere sacro di cui sono state investite» (pagg. 87-88).

Se è vero che non si può “datare" ad un preciso momento una svolta storica che fu lungamente preparata, tuttavia con Costantino il “nuovo corso" ebbe la sanzione ufficiale.

«La situazione si modifica radicalmente con l'avvento della virata costantiniana. Da religio illicita il cristianesimo si fa religione ufficiale, pertanto ideologia sacrale dell'Impero. Per la chiesa è la grande opportunità di non restare più un ghetto, ma di farsi veramente ecclesia universalis. La sua grande avventura culturale e politica ha inizio. Ed essa fa l’esperienza del potere, con tutti i rischi che questo implica. Approfitterà del kairos storico per articolare il potere nel senso specifico di Gesù, diverso da quello dei pagani, con le conseguenze di un modo diverso di convivenza umana, di un diverso umanesimo, di un diverso significato per l’apparato politico?

Tutto è avvenuto troppo rapidamente. La chiesa, nonostante le persecuzioni, pare che non fosse preparata ad affrontare evangelicamente le sfide del potere. Essa non abolì l'ordine preesistente. Lo assunse e vi si adattò. Offerse all'Impero un'ideologia che sosteneva l'ordine costituito e sacralizzava il mondo pagano: "La religione che ha contrassegnato l'occidente non è stata propriamente il messaggio cristiano, ma una sintesi tra la religione antica e quella cristiana". Così uno studioso moderno concludeva la sua ricerca sulle origini del regime di cristianità e della religione di Stato. Con l’entrata nella chiesa dei funzionari dell'Impero che dovevano immettervi la nuova ideologia statale, si verificò piuttosto una paganizzazione del cristianesimo che non una cristianizzazione del paganesimo. La chiesa, fino al 312 più movimento che istituzione, passò ad essere la grande erede delle istituzioni dell'Impero: diritto, organizzazione in diocesi e parrocchie, centralizzazione burocratica, cariche e titoli. La chiesa-istituzione si accomodò di buon grado alle realtà politiche e alle uniformità inesorabili. Diede inizio a una traiettoria di potere che dura fino al presente e il cui tramonto, pare, non è ancora dato intravedere» (pag. 88).

Quando la chiesa cambia il suo rapporto con il potere e diventa essa stessa potere, si trasforma anche la sua elaborazione teologica e la sua "strutturazione" interna.

«La categoria chiave di autocomprensione della chiesa sarà tour court quella di potestas. La chiesa comprenderà se stessa, fondamentalmente, come quella comunità che è investita di potere (gerarchia) di fronte a un'altra comunità destituita di potere (popolo di Dio dei laici), sulla quale si esercita il potere. Il potere si instaurerà come l'orizzonte massimo, a partire dal quale sarà assimilato, compreso e annunciato il vangelo. Cristo è l’Imperatur, il Signore universale, non più il Servo sofferente, colui che affrontò i poteri di questo mondo e quell'Impero di cui il papa è erede, un Gesù che ha decisamente rinunciato a ogni potere e magnificenza terrena. La chiesa-istituzione ha idealizzato il passato, ha letto con categorie di potere giuridico e politico la exousia neotestamentaria e il potere affidato a Pietro di confermare i fratelli nella fede. Ideologicamente, e a beneficio dei detentori del potere sacro, sono state interpretate le parole proferite, come vedremo, in una situazione missionaria (di chiesa mondo, e non di gerarchia-comunità): «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me e disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,16).

Nel secolo XI, con Gregorio VII. si ha una virata decisiva dentro la stessa struttura del potere. Nel suo Dictatus Papae (1075) il papa si erge contro la prepotenza del potere secolare, che degenera in simonia, nicolaismo e in ogni sorta di sacrilegi, e inaugura l’ideologia del potere assoluto del papato. Il supporto non è la figura di Gesù Cristo povero, umile e debole, ma Dio, il Signore onnipotente dell'universo e la fonte unica del potere. Il papa intende se stesso, misticamente, come l’unico riflesso del potere divino nell'ordine della creazione. Egli ne è il vicario e il luogotenente. Si possono così capire le proposizioni seguenti del Dictatus Papae: «Solo il Pontefice romano merita di essere chiamato universale»; «Il suo legato, in un Concilio, comanda a tutti i vescovi, anche se è di ordine inferiore; e soltanto lui può pronunciare la sentenza di deposizione»; «Il papa è l'unico uomo a cui tutti i princípi baciano i piedi»; «Il suo verdetto non deve esser riformato da nessuno e lui da solo può riformare quello di tutti» (18); «Egli non deve essere giudicato da nessuno» (19); «La chiesa romana non ha mai errato e, come attestano le Scritture, non potrà mai errare»; «Il Pontefice romano, se sia stato ordinato canonicamente, è indubbiamente santo, per i meriti di san Pietro» (pag. 90). Imboccata la via del potere, si giunse fino agli estremi. Ogni elogio al papa è tollerato, anche la papolatria.

«Il Summus Pontifex veniva così ad assumere l'eredità dell’Impero romano e a costituirsi come potere assoluto, sposando nella sua persona il sacerdotium e il regnum. Era la dittatura del papato. A partire da lì si è elaborata la teologia della cosiddetta “cefalizzazione“, cioè del capo come pienezza di senso e di potere. L'espressione Caput (capo), nel Nuovo Testamento riservata soltanto a Cristo, viene qui applicata al papa, quale detentore di tutti i valori e i poteri di Dio, di Cristo, della chiesa, del popolo, dell'Impero, del Collegio episcopale. Sulla base di questa comprensione dell'assoluto potere, un autore recente poteva scrivere: "Il papa è Dio sulla terra... Gesù ha posto il papa sopra i profeti, sopra il suo precursore... sopra gli angeli... Gesù ha posto il papa allo stesso livello di Dio". L'esagerazione nell'esaltare il potere, fino alla sua esasperazione eretica, è dal potere stesso benevolmente compresa e discolpata» (pag. 91).

Quando si accetta il potere muore la profezia e prende il sopravvento il compromesso e la sopravvivenza, cioè una chiesa che pensa a piazzarsi bene, a farsi largo.

«La chiesa-istituzione non agisce profeticamente, a rischio di venir eliminata da una data regione. Preferisce sopravvivere, comportandosi opportunisticamente, anche se si trova davanti a violazioni gravissime dei diritti umani, quali lo sterminio di milioni di ebrei e di migliaia di intellettuali cattolici polacchi, come nel caso della seconda guerra mondiale.

A questo proposito è da notare la grande differenza tra la chiesa dei primi tre secoli e la chiesa posteriore, che fa l'esperienza del potere. La chiesa primeva era profetica. Andava contenta alle torture e sapeva coraggiosamente morire nel martirio. Non si curava della propria sopravvivenza, perché fiduciosa nella promessa del Signore che le garantiva l'indefettibilità. Questa non costituiva un problema della raison de l'Eglise. Era un problema di Dio. I vescovi camminavano a fianco, confermando i fratelli a morire per il Signore. La chiesa seguente, invece, si fa opportunista: cerca di difendere il proprio spazio nel mondo» (pag. 98).

Tutto questo è il frutto amaro del potere, eppure i fatti non possono essere negati.

«Per quanto ciò possa irritare gli attuali detentori del potere ecclesiastico, dobbiamo constatare che la chiesa-istituzione non ha superato la prova del potere. Avremmo potuto sperare che essa storicizzasse una nuova forma di esercizio del potere, secondo il dettato evangelico. E invece l'esercizio del potere nella chiesa ha seguito i criteri del potere pagano, in termini di dominazione, centralismo, emarginazione, trionfalismo, hybris umana sotto forme di copertura sacrale» (pag. 100).

Per ringiovanire evangelicamente il volto e il tessuto della chiesa occorre assumersene la responsabilità.

«Se riconosciamo il passato poco vivificante della chiesa-istituzione, alle prese con l'esercizio del potere, ciò non significa che rigettiamo la chiesa-istituzione, realtà concreta che rende esplicito il mistero cristiano e che predica, nonostante tutte le sue contraddizioni interne al sistema, Gesù Cristo Liberatore. Ogni cristiano deve assumere questo passato che non si può disconoscere né ricalcare. C'è una forma di nevrosi che nasce appunto dal rifiuto di accettare il proprio passato iniquo. Nessuno è invitato ad essere un cristiano nevrotico, ma ad assumere criticamente il passato della propria chiesa-istituzione e impedire che esso si perpetui nel presente e nel futuro. Assumere il passato non vuol dire giustificarlo. È un atto di coraggio verso noi stessi, poiché è il nostro passato, in quanto siamo membri del Popolo di Dio al cui interno si situa la chiesa gerarchica. Ma questo non ci tranquillizza. Ci chiama ad essere corresponsabili per il futuro della fede cristiana nel cuore del mondo. La causa di Cristo e del Popolo di Dio è troppo importante per essere lasciata nelle sole mani della gerarchia» (pag. 103).

E si tratta, per ognuno di noi, di una responsabilità non delegabile, irrinunciabile. Ne va la nostra fedeltà all'evangelo; ne va il nostro amore alla chiesa.

Leonardo Boff affronta poi il celebre detto evangelico: «Chi ascolta voi ascolta me» che è stato molto strumentalizzato.

Siamo soliti leggere o ascoltare queste parole del vangelo (e soprattutto sentircele spiegare) come la legittimazione del potere gerarchico, la sua più alta sacralizzazione. Qui, Boff, in una pagina tra le più efficaci del libro, ci aiuta a superare questo banale travisamento del testo biblico e ce ne offre le motivazioni.

«Comunemente l'autorità ecclesiastica cerca la propria legittimità nella frase di Cristo, conservataci da Luca: "Chi ascolta voi, ascolta me; e chi rigetta voi, rigetta me; e chi mi rigetta, rigetta colui che mi ha mandato» (10,16). Questo logion condensa le raccomandazioni ai missionari, i settantadue discepoli. Tale Sitz im Lebem missionario e importante per una esatta comprensione del testo. Nella missione, gli uomini si confrontano con la novità del messaggio di Gesù, che non è di potere, né di spettacolari mete rivoluzionarie, ma di conversione, amore, perdono, riconciliazione universale, ecc. Qui si tratta, pertanto, dell'annuncio di un messaggio che contraddice delle situazioni e dei valori umani costituiti. L'uomo è chiamato alla conversione. Il vangelo è crisi e giudizio dei comportamenti umani. Per questo porta a un conflitto. C'è chi si chiude al messaggio e lo rigetta, insieme con i suoi annunciatori. Il passo, di conseguenza, riguarda l'incontro tra il vangelo e il mondo, e non regola il rapporto tra la gerarchia e la comunità dei fedeli. Anche i fedeli sono invia ti. E anche per essi valgono queste parole di Cristo. Tradurre il testo nel senso di un’argomentazione come questa: “chi rigetta qualcosa del rappresentante di Cristo (gerarchia) rigetta lo stesso Cristo", significherebbe utilizzarlo in un senso statico-giuridico intraecclesiastico, non previsto dal contesto missionario. Se annunciando Cristo e il suo mistero, lasciando trasparire non se stessi né l'istituzione in primo piano, ma autenticamente il messaggio della salvezza, il missionario viene rifiutato, allora egli sappia e sappiano anche gli uomini che non è stato accolto lo stesso Cristo. Non si tratta, dunque, di proposizioni che verrebbero rigettate, ma della funzione propria di chi evangelizza e annuncia la salvezza agli uomini» (pag. 108).

Le strutture della chiesa non possono essere fatte risalire ad un “fondatore” che abbia conferito loro un valore divino, rendendole intangibili, immutabili. Le forme sono scelte e decisioni che i cristiani debbono assumere in un tempo e possono successivamente cambiare. «Una forma patologica è stata rivendicata come se fosse il cattolicesimo tout court. Ha conquistato i fori ufficiali ed è entrata nei manuali della dogmatica post-tridentina, prolungandosi fino all'avvento del Concilio Vaticano II. Ad esempio, la chiesa veniva presentata in questo modo: Cristo, prima di salire al cielo, ha lasciato la chiesa bell'e pronta con le sue strutture, il suo corpo dottrinale, i suoi vari ministeri e i sette sacramenti. Il problema della chiesa era di come conservare tutto ciò allo stato puro, pure a costo di un'esplicitazione liberatrice ma pericolosa. La chiesa doveva restare inalterabile nella storia: andare in linea retta verso l'incontro con il Signore nella parusia, con un'evoluzione rettilinea e una crescita meramente orizzontale. Il possibile sviluppo posteriore era già contenuto nelle direttive che Cristo aveva dato agli apostoli, come sono conservate sia nella Scrittura che nella tradizione. Così si giustificava teologicamente, e si conservava, per tutti i tempi, una determinata forma storica della chiesa sorta in un tempo determinato, nella quale tutto veniva considerato istituito da Cristo. Come J.A. Möhler diceva di alcuni teologi del suo tempo: «Per essi, Dio ha creato la gerarchia. E questo per la chiesa è più che sufficiente per garantirla fino alla fine del mondo» (pag. 126).

«Oggi ci sembra un'evidenza palmare che è proprio dell'ideologia di presentare come naturale ciò che è storico, e come divino ciò che è umano. In tal modo l'umano viene a guadagnare un valore indiscutibile imposto a tutti e lo storico un elemento di dominazione che congela la stessa storia. Si apre qui lo spazio per parlare dell'aspetto patologico del cattolicesimo e della sua capacità di trasformarsi in elemento di oppressione dell'uomo, di cui parleremo in seguito» (pag. 126).

Il papato, le forme di episcopato monarchico, tutte le forme strutturali dell'istituzione ecclesiastica possono cambiare, estinguersi, trasformarsi. Come dice il teologo Congar: «Noi, cattolici romani dovremmo fare dei passi avanti nel riconoscimento della storicità del papato e delle strutture gerarchiche della nostra chiesa» (Congar, Diversità e comunione, Cittadella Editrice, Assisi 1984, pag. 246). Eppure siamo ad esse aggrappati come se fossero il vangelo. Finché servono all'evangelo hanno una ragione; quando creano ostacoli, sono da buttare o convertire.

Una chiesa cattolica, cioè universale, è capace di accogliere le varietà, le diversità anche strutturali. Una chiesa romana, che esiga da tutti come tassativa la romanità, diventa una chiesa esclusiva, restrittiva, che taglia fuori dalla “comunione universale“.

«Le note sarebbero le quattro sopra riferite: unità, santità, cattolicità e apostolicità. Più tardi, specialmente sulla base delle polemiche contro gli eretici valdesi del secolo XIII (sotto il papa Innocenzo III: DS 792), e con la massima intensità negli ecclesiologi della fine del secolo XIX (Passaglia, Mazzella, Perrone) si è venuta ad aggiungere una quinta nota, quella della romanità. La chiesa è una, santa, cattolica, apostolica, romana.

Il risultato dimostrativo delle note (per viam notarum) è stato di fatto quasi nullo, per la difficoltà di dimostrare che esse si realizzano esclusivamente nella chiesa cattolica romana. Alla fin fine tutto si è concentrato nella nota più discernibile, quella della romanità» (pag. 186).

Qui il discorso tocca un punto di facile e diffusa constatazione, ma vi aggiunge l'anelito verso una "difficile comunione”, quella che sa fare i conti con i conflitti. anche duri.

«Evidentemente la vecchia chiesa guarderà con sfiducia a questa nuova chiesa periferica e alle libertà evangeliche che essa si prende. Potrà scorgervi una concorrente; griderà a una chiesa parallela, a un magistero parallelo, a una mancanza di ubbidienza e di lealtà verso il centro! La chiesa nuova dovrà saper usare di una strategia e tattica intelligenti: non dovrà entrare negli schemi delle condanne e dei sospetti, come il centro potrebbe fare. Dovrà essere evangelica, comprendere che l'istituzione, in quanto potere, potrà soltanto usare quel linguaggio che non mette in rischio lo stesso potere, che sempre avrà paura di qualunque deviazione dal comportamento dettato dal centro stesso e che lo vedrà come una slealtà. Anziché cercare di capire tutto ciò, la nuova chiesa dovrà restare fedele al proprio cammino: dovrà essere lealmente disubbidiente. Mi spiego: dovrà cercare una profonda lealtà verso le esigenze del vangelo; dovrà ascoltare la voce del centro per interrogarsi sulla verità della propria interpretazione evangelica; e nel caso che resti criticamente e profondamente convinta della sua strada, dovrà avere il coraggio di essere disubbidiente nel Signore e nel vangelo alle imposizioni del centro, senza rancori né lamentele, ma in una adesione profonda alla stessa volontà di essere fedele a quello Spirito che non può essere canalizzato secondo gli interessi umani. L'apertura alla comunione con il tutto, l'esclusione quanto meno della possibilità di una rottura che distrugga l'unità e la carità - anche se ciò significa isolamento, persecuzione e condanna da parte del centro - costituisce la garanzia dell'autenticità cristiana e il sigillo dell'ispirazione evangelica» (pag. 111).

Ci scusi il lettore per il lungo intreccio di riflessioni e citazioni, ma forse non risulterà inutile questa sua e nostra fatica, nella speranza di portare il nostro piccolo contributo per una chiesa più fraterna.

* Per tutti questi problemi si veda inoltre: AA. VV., I diritti umani nella chiesa cattolica, Claudiana, Torino 1980. «La scelta tra una chiesa della fraternità ed una chiesa delle subalternità gerarchiche è quindi, in ultima analisi. la scelta tra una concezione di Dio radicata nel vangelo cristiano ed una concezione religioso-societaria che trae altrove il suo alimento» (G. RUGGERI, in Concilium 6/1981, pag. 55).

* DOMENICO DEL RIO, in La Repubblica, del 15/1/1985, nell'articolo “Ma quanto viaggia questo Papa", scrive:

«Qual è la differenza tra Dio e Wojtyla?». «Che Dio è in ogni luogo, e Wojtyla c'è già stato». La battuta, un po' irriverente, che circola nella curia romana (quando mai la curia romana non è stata irriverente verso i papi regnanti?) delinea l'aspetto più appariscente e caratterizzante del pontificato di Giovanni Paolo II: i viaggi. E con i viaggi, l'immagine che il pontefice dona di sé al mondo.

«Potrei anche definirlo uomo carismatico», dice Emile Poulat, storico parigino, autore di libri di analisi dei fenomeni ecclesiali, «però conosce troppo bene l'uso dei mass-media. È il papa-spettacolo, come Reagan, che è attore. Ci sono due grandi attori nel mondo: Wojtyla e Reagan. Cernienko non è un attore: agisce in penombra. Per il papa, poi, i viaggi sono uno strumento per governare la Chiesa. Carlo Magno inviava nelle terre dell'impero i suoi “missi dominici". Oggi, Wojtyla fa da sé il proprio "missus dominicus“».

«Io mi chiedo se non sia ora di pensare a uno stile diverso di questi viaggi papali», aggiunge Garcia Perez, gesuita, direttore del centro culturale "Loyola" di Madrid. «Bisognerebbe che fossero meno trionfalistici e con la possibilità di maggiori risultati. È vero, la gente accorre a vedere il papa, ma poi? Questi viaggi mi sembrano come un gran vento, che arriva, smuove un po' e poi scompare, lasciando tutto come prima. Mi pare che così sia avvenuto anche qui in Spagna».

Piace il cantore ma non il canto

Una chiesa, dunque, smossa trionfalmente dai viaggi del papa, ma che alla fine non si adatta al suo magistero?

«Uno dei viaggi papali più clamorosi», continua Perez, «è stato quello negli Stati Uniti. Le folle, gli stadi sono andati in visibilio per Wojtyla. Ebbene, ho sentito poi questo commento da un americano: "We like the singer, but not the song", ci piace il cantore, ma non il canto. Voleva dire che negli Stati Uniti sono stati impressionati più dalla personalità del pontefice che dal suo messaggio. Mi viene in mente un'osservazione di Rahner: i viaggi di Giovanni Paolo II dovrebbero dirigere lo sguardo e il cuore degli uomini verso Dio e verso il prossimo che ha bisogno, non verso la figura del papa».

«Un viaggio papale, per essere apostolico», dice Jose Maria Gonzalez Ruiz, teologo di Malaga, «dovrebbe svestirsi di tutto il trionfalismo da cui è circondato. Ma al papa piacciono queste cose. Non per nulla Zeffirelli viene chiamato a fare da regista nelle solenni funzioni in San Pietro. Io non penso che Wojtyla sia vanitoso, ma egli crede che tutto questo faccia del papato una specie di potere per contrastare altri poteri. E ciò fa parte della sua mentalità polacca. Un papa dovrebbe presentarsi in giro con un volto più evangelico, senza connotati politici. Mi viene in mente quando Wojtyla ha incontrato all'aeroporto di Managua il povero Ernesto Cardenal, che si mette in ginocchio davanti a lui, e il papa che lo sgrida, agitandogli un dito sul capo, e gli dice di regolare la sua posizione, lasciando la carica di ministro.

Ma come? Sgridi Cardenal, monaco, perché è ministro, e tu, papa, sei capo di Stato, sei arrivato lì come sovrano, accolto con fanfare militari e salve di cannone, come si fa con i re e con gli imperatori! Io sono d'accordo che non ci devono essere preti ministri né in governi di sinistra né in governi di destra. Vescovi e preti non devono diventare leaders politici, capi popolari. Si sa, al popolo i leaders piacciono molto, ogni leader è sacro. E poiché oggi c'è democrazia e i leaders non si presentano sacralizzati, ma con volto perfino troppo terra terra, il popolo cerca i capi già sacri di per sé. Si vede chiaramente con questo papa, il quale, oltretutto, è un buon attore e sa far bene la sua parte di persona sacra: bacia la terra, agita le mani, afferra bambini. Oh, lui lo fa sinceramente, perché pensa che questo sia un modo evangelico, apostolico».

E invece?

«E invece questa è una tentazione del diavolo», risponde Gonzalez Ruiz, che ha scritto un libro sulla "Tentazione di Gesù di fronte al potere popolare". «Cristo è stato perseguitato dai potenti. Il papa viene ricevuto dai potenti. Qui, in Spagna, il governo socialista al completo è andato a ricevere il pontefice a Saragozza. Gesù Cristo non fu mai ricevuto dai sadducei o dai principi dei sacerdoti, né Ponzio Pilato andava a salutarlo quando usciva da Gerusalemme né Erode Antipa si recava ad ossequiarlo quando si portava all'altra riva del fiume Giordano. Il papa cede alla tentazione diabolica. È stata la grande tentazione di Gesù: i popoli della terra ti applaudiranno, avrai ai tuoi piedi i regni del mondo... Vade retro, Satana! E invece, io, papa, ho visitato tutti i regni del mondo e mi hanno applaudito. Ma questo è quello che diceva il diavolo a Gesù. Ora io non dico che il papa agisca con doppiezza, con falsità. Magari noi spagnoli, italiani, francesi, possiamo essere dei cinici. Un polacco no, un nordico no. È sincero. È tutto d'un pezzo».

Ed ecco l'elemento Polonia che seguita ad entrare nella definizione della personalità del papa.

«Noi accogliamo con ossequio religioso le parole e i gesti del papa», afferma Josip Turcinovic, della facoltà teologica di Zagabria, «vediamo aspetti positivi, ma scorgiamo talvolta anche aspetti che provengono da un'esperienza molto diversa dalla nostra, qui in Jugoslavia. Noi non siamo la Polonia. Talune prese di posizione non corrispondono alla complessità della nostra realtà, dove si incontrano popoli diversi e religioni diverse. Prendiamo, per esempio il giudizio che viene dato sul marxismo. Bisognerebbe capire che ci sono tipi di marxismo differenti tra loro. Se si applica su tutti un giudizio che vale soltanto per un marxismo stalinista sovietico, allora si bloccano certi sviluppi che si hanno in altri paesi, anzi si appoggiano proprio le forze staliniste che cercano di irrigidire i rapporti con i credenti. Inconsapevolmente si finisce, in questo modo, per usare una logica stalinista».

«Ho incontrato Wojtyla quando era arcivescovo di Cracovia», dice Pierre Delooz, del centro "Pro mundi vita", di Bruxelles, «e mi pare che in questi anni abbia modificato qualcosa in sé, ma è evidente che si porta dietro il modello polacco di Chiesa, cioè un cattolicesimo da anni 30, impostato su manifestazioni esteriori di fede (confessioni, processioni), molto gerarchizzato e sacralizzato. È difficile farlo accettare agli altri». In definitiva, allora, com’è questo papa?

«Non è facile dare un giudizio completo su una personalità così complessa e ricca come è quella dell'attuale pontefice», risponde Michel Demaison, domenicano, direttore di “Lumiere et vie", di Lione. «A volte ci si può entusiasmare per certe sue uscite in pubblico, per certe sue improvvisazioni, di cui egli ha il segreto, perché è un uomo dei mass-media, un personaggio di consumo. E subito dopo, egli ti lascerà sconcertato sia per le sue parole molto sicure, molto categoriche, sia perché fa fare o lascia fare certe cose a questo suo ministro inquisitore, Ratzinger, che egli copre con la sua firma. Allora, io mi sento a disagio a parlare di un papa come questo. È il capo della Chiesa, io lo rispetto, lo ascolto».

«Come persona è simpatico»
Come persona, è simpatico. Ma la sua presenza e la sua azione svegliano qualche timore: egli, cioè, risponde troppo bene a dei bisogni attuali di certezze affermate, di appariscenza, al limite, di propaganda. Questo, per me, non è il mezzo migliore per far passare l'essenziale della fede e non è questo il modo di leggere l’azione di Gesù Cristo nel Vangelo, il quale esprimeva più interrogativi conturbanti che affermazioni rassicuranti. Ma forse, dopo un Paolo VI, angosciato, tormentato, a volte indeciso, doveva apparire un valoroso campione della fede, che batte i pugni sul tavolo e dice: o si fa così o altrimenti...».

Uomo che dà sicurezze, ma anche perché la gente cerca sicurezze. C'è un fantasma che si aggira fra gli uomini: la guerra, la catastrofe nucleare. Sarà pure un attore, ma Wojtyla è l'unico grande capo religioso che cammina per il mondo a gridare pace. I grandi capi politici, quelli che fanno l'attore o quelli che agiscono in penombra, pensano agli arsenali atomici. Il papa è andato a predicare la pace in paesi che facevano la guerra, in Inghilterra, in Argentina. E, infine, è anche il papa della difesa dei diritti umani, in un mondo che in vari modi li calpesta.

«È vero», conviene Miguel Lamet, gesuita, direttore del settimanale “Vida Nueva", di Madrid, «e in questa sua ansia di pacificazione universale incide anche la sua vocazione slava. Egli si sente come colui che deve fare da ponte tra Oriente e Occidente. Secondo me, ha un desiderio intenso: andare a Mosca e a Pechino. È questo uomo forte che si presenta così al mondo. Ma io ho una paura. Giovanni Paolo II è un uomo forte, ma gli uomini forti sono soli, più soli degli uomini deboli, perché i deboli avvertono il bisogno degli altri. Papa Wojtyla va a presentare la Chiesa al mondo, ma quasi in solitudine, nonostante le folle, anzi, forse anche per quella passione che ha per la sua patria, come in un alone di martirio. Io vedo un pontificato rivestito di tragedia».