Il vento di Dio ci spinge (At 1, 1-5 - At 2, 1-13 - Gv 16, 5-15) - don Franco Barbero
Gesù è vivo, come abbiamo sentito dal vangelo, per opera di Dio. Egli ha vinto la morte per dirci che Dio può aiutarci nella lotta contro tutti i volti del male, compresa la morte.
Che cosa vuol dire che Gesù è salito in cielo, come ci narra il libro degli ATTI degli apostoli (1,6-11)? Vuole semplicemente annunciarci che Dio lo ha costituito per noi e per tutti "Signore", cioè ha fatto di lui la nostra via di salvezza, colui che ci apre una strada nuova, un modo nuovo di vivere. Gesù è colui che Dio ha costituito maestro di vita, e ora lo ha posto vicino a sé per indicarci la meta definitiva del nostro cammino di uomini e donne credenti.
Dio lo ha scelto per una missione tutta particolare, unica. Per questo noi chiamiamo Gesù con il bel nome di "Figlio di Dio". Ma ora che Gesù, fisicamente, non è più con noi, siamo forse senza guida e senza maestro? Come potremo avere la forza che veniva ai discepoli dalla presenza e dalle parole di Gesù? C'è un racconto nella Bibbia, nel libro degli Atti degli apostoli, che è bello, pittoresco, pieno di simboli e di significato. Sentitene un brano: « Cinquanta giorni dopo la Pasqua, i credenti erano riuniti tutti insieme nello stesso luogo. All'improvviso si sentì un rumore in cielo, come quando tira un forte vento, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Allora videro qualcosa di simile a lingue di fuoco che si separavano e si posavano sopra ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e si misero a parlare in altre lingue, come lo Spirito Santo concedeva loro di esprimersi...» (2,1-13). Questa forza che sentono in loro, questa forza che viene loro data per cui escono e parlano, predicano e discutono, annunciano e non si fermano di fronte alle minacce dei capi del Sinedrio, è il nuovo modo con cui Dio, ora che Gesù non è più presente con i discepoli, li sostiene e si dimostra vicino.
Gesù era un segno visibile della vicinanza di Dio: era il suo profeta per eccellenza. Ora però le cose erano cambiate, ma Dio non ha cessato di sostenere i discepoli di Gesù. Se ieri li guidava e li animava mediante Gesù, ora li sorregge e li rafforza con il suo Spirito. Che bell’espressione! “Spirito” vuol dire vento che spinge, forza, coraggio, presenza che sostiene. E viene detto “Santo” per il fatto che viene da Dio e conduce a compiere la sua volontà. È una forza che non abbiamo in noi stessi e che nessuno, se non Dio, ci può dare.
Lo Spirito Santo allora non è altro che Dio stesso in quanto si fa vicino a noi per donarci la forza e il coraggio di percorrere la strada che Gesù ha aperto, di vivere come Gesù ci ha insegnato.
Il vangelo ci dice anche che è lo Spirito di Gesù, cioè quella forza di Dio che già animò la vita di Gesù. Sentite come i discepoli esperimentarono questo coraggio. Da poche settimane Gesù era stato ucciso. I sommi sacerdoti pensavano di aver eliminato per sempre il nome di Gesù e di aver disperso e scoraggiato il suo gruppo di discepoli. Neanche per sogno! Un giorno Pietro e Giovanni andarono nella piazza di Gerusalemme e si misero a parlare a tutti: quel Gesù che i nostri capi hanno fatto uccidere, era davvero il grande amico di Dio, ci insegnava una strada buona e giusta. Proprio per questo i capi lo hanno ucciso... perché lui era dalla parte dei più poveri! Ma sapete che cosa successe? Appena i sacerdoti e i capi della città vennero a sapere che Pietro e Giovanni parlavano alla gente di Gesù, mandarono dei poliziotti che li acciuffassero. Li presero e li portarono dal capo dei sacerdoti. Così, con rabbia, disse loro: «Ma... non sapete voi che, se vi sentiamo parlare ancora una volta, anche una sola volta, di Gesù, vi facciamo bastonare a dovere e vi gettiamo in prigione?» I due discepoli furono minacciati e maltrattati. I sacerdoti credevano di averli ridotti al silenzio.
Qualche giorno dopo Pietro e Giovanni andarono di nuovo in piazza e, sapete voi che cosa fecero? Si misero a predicare ancora più forte tutte le cose che Gesù aveva insegnato loro. Vennero gli sbirri e questa volta li portarono di fronte al capo supremo dei sacerdoti e li fecero percuotere a sangue. Poi dissero loro: «Parlerete ancora sulle piazze di quel disgraziato di Gesù di Nazareth?». Pietro e Giovanni, con grande coraggio e convinzione, dissero: «Noi continueremo perché questo piace a Dio. Continueremo, anche se voi deciderete di ucciderci». Li misero in prigione per un po' e li fecero soffrire, ma Pietro e Giovanni non si scoraggiarono e continuarono a dire e a fare come Gesù.
La bibbia dà dei bellissimi nomi a questa presenza di Dio che noi chiamiamo Spirito Santo! Si parla di “vento”, di “forza”, di difensore, cioè uno che ci starà vicino nell'ora della difficoltà, colui che ci assiste nella nostra ricerca di vivere come Gesù. Una volta l'anno, precisamente nella festa di Pentecoste, noi ricordiamo il dono che Dio ci fa di questa sua forza, di questo vento di vita, di speranza, di verità. Che bello! Dio è come un vento penetrante e possente che ci sospinge e ci stimola a camminare verso l'amore e verso la verità! È come un vento che dolcemente ci sospinge senza farci violenza. Dio sa che ci sono tanti venti contrari, cioè tante difficoltà nel seguire la strada di Gesù, e allora ci regala il suo vento proprio perché noi possiamo contare su di lui. Si tratta di un “vento” che ci sospinge senza costringerci, ci sollecita senza obbligarci, ci invita lasciandoci liberi. Capisci ora che cosa vuol dire quella pagina degli Atti degli Apostoli che ci parla, nel linguaggio simbolico, del vento che invase la sala in cui i discepoli erano radunati?
Bibliografia e annotazioni
Ci sembra che la scheda proposta sia molto impegnativa per la riscoperta di un immaginario e di un linguaggio teologico profondamente rinnovato.
Noi siamo partiti da alcune chiarificazioni che ci sono sembrate essenziali. Infatti, parlando dello Spirito Santo, affiorano nodi teologici ineludibili, sia a livello biblico-teologico, sia a livello semantico."
* «Questo Spirito non è... lo spirito dell'uomo. Egli è lo Spirito di Dio che, in quanto Spirito Santo, viene distinto dallo spirito non santo dell'uomo e del suo mondo. Lo Spirito Santo non è nient'altro che Dio stesso! Dio stesso, nella misura in cui questi è vicino agli uomini e al mondo come la potenza e la forza che afferra, ma non può essere afferrata, che dona, ma della quale non si può mai disporre, che crea la vita, ma che giudica. Lo Spirito Santo allora non è un tertium quid, qualcosa di intermedio tra Dio e gli uomini, bensì la vicinanza personale di Dio agli uomini... Che cosa significa credere nello Spirito Santo? Significa semplicemente ammettere con fiducia che Dio stesso possa divenirmi intimamente presente nella fede, che egli, come potenza e forza benefica, possa acquistare il dominio sul mio intimo, sul mio cuore, sul mio io. In virtù di una tale fede io posso avere la fiducia che lo Spirito di Dio non sia uno spirito che riduce in schiavitù, bensì nient'altro che lo spirito di Gesù Cristo accolto presso Dio, lo Spirito di Gesù Cristo... Lo Spirito di Dio non è mai una mia propria possibilità, ma rimane sempre una forza, una potenza, un dono di Dio... Egli è sempre lo Spirito Santo di Dio che soffia dove e quando vuole, e che non può mai venire addotto a giustificazione di un'autorità assoluta di magistero e di governo, di una teologia dogmatica priva di fondamenta, di un pio fanatismo e di una falsa sicurezza della fede. Nessuno - né vescovo né professore né parroco né laico - “possiede” lo Spirito. Ma ognuno può chiedere, senza mai stancarsi, che gli venga concesso. Ricevere lo Spirito Santo non significa allora lasciare che si produca in me un evento magico, bensì aprirsi dall'interno al messaggio, e quindi a Dio e al suo Cristo crocifisso, e lasciarsi così afferrare dallo Spirito di Dio e di Cristo. Credere nello Spirito Santo, nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo significa, non per ultimo, credere nello Spirito della libertà. Infatti “dove c'è lo Spirito del Signore", dice Paolo, "là c'è libertà"! Una libertà dalla colpa, dal legalismo e dalla morte, una libertà nel mondo e nella chiesa...» (H. KUNG, 24 tesi sul problema di Dio, Mondadori, Milano 1980, pagg. 142-144).
Lo stesso Autore scrive: «Questo è importante: lo Spirito Santo non è una terza realtà (dopo il Padre e dopo il Figlio, ndr), un quid tra Dio e gli uomini, ma la personale vicinanza di Dio agli uomini. La maggior parte degli equivoci intorno allo Spirito Santo sono imputabili al fatto che lo si dissocia mitologicamente da Dio, rendendolo autonomo» (Dio esiste?, Mondadori, Milano 1979, pag. 576). Pagine stupende si trovano in questo volume dedicate a Dio e al problema trinitario e cristologico. Appunto da pag. 744 a pag. 783. H. Kung ha dedicato alcune pagine a questo tema in CONCILIUM 8/1979, (via Piamarta, 6 - 25100 Brescia). Egli porta l’attenzione sul modo in cui si può parlare oggi dello Spirito Santo.
* Fondamentale ci è sembrato il volumetto edito dalla Queriniana e composto sotto forma di dialogo da Pinchas Lapide e Jurgen Moltmann, Monoteismo ebraico - dottrina trinitaria cristiana, Brescia 1980. Eccone alcuni tratti con l'invito a studiare con impegno l'intera opera. «Una cosa è chiara: l'intero arcobaleno delle esperienze ebraiche di Dio è e rimane nell'ebraismo soltanto una galleria di immagini linguistiche che non potranno mai irrigidirsi in concetti pietrificati sui quali costruire poi una conoscenza compiuta di Dio o addirittura un sistema completo. Tutte queste immagini, senza alcuna eccezione, sono un balbettio impotente che nel miglior dei casi dirà qualcosa sull'indicibile, ma che mai e poi mai potrà venir teologizzato in rigide formule con precise successioni o addirittura con perfetto ordine gerarchico.
Così Aggeo il profeta in nome di Dio può dire: "Io sono con voi secondo la parola dell'alleanza che ho stipulato con voi (...); il mio spirito sarà con voi" - senza che questo enunciato sia stato tramutato dall'ebraismo in una determinazione ontologica di Dio.
Dovremo presumere che l'ebreo Gesù non abbia conosciuto una Trinità nel senso dogmatico, come non l'ha conosciuta l’ebreo Paolo, che può dire; "Il Signore è lo Spirito", dove - secondo l’impostazione ebraica - non si distingue ancora il Kýrios dal Pnêuma. E nella stessa lettera egli non è certo né della terminologia né della successione, se dice: “La grazia del Signore Gesù Cristo. l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo". Qui sembra si parli più ricorrendo ad una triade poetica - come fede, speranza, carità di I Cor. 13 -- che pensando ad una Trinità dogmatica, della quale l'ebreo Paolo non sapeva nulla perché essa venne alla luce soltanto alcuni secoli dopo la sua morte.
Se alla domanda di quale sia il comandamento più importante. Gesù risponde con lo Shema Israel (Mc. 12,29), non mancano però dei passi, negli scritti paolini, che ci attestano che anche l’apostolo dei pagani rimase fedele al monoteismo del suo Signore:
“Ma capo di Cristo è Dio" (I Cor. 11,3).
“Un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui" (I Cor. 8,6).
“Uno solo è Dio. che opera tutto in tutti" (I Cor. 12,6).
“Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef. 4,6).
"Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio" (I Cor. 3,22 ss).
Chi conosce lo sviluppo della storia dei dogmi sa che l'immagine di Dio della chiesa primitiva era unitaria e che divenne biunitaria, poco a poco, soltanto nel secondo secolo, passando attraverso la dottrina della subordinazione. Per Padri della chiesa quali Giustino martire, Ireneo e Tertulliano, Gesù è in tutto subordinato al Padre, ed Origene si rifiuta ancora di rivolgere la sua preghiera a Cristo perché - come scrive - essa dev'essere fatta esclusivamente al Padre. E qui si richiama al detto di Gesù riferitoci dal vangelo di Giovanni: “Il Padre che mi ha mandato è più grande di me". Il quadro che ci viene dalla storia è quasi simile ad una progressione aritmetica. Nel primo secolo Dio è concepito ancora in termini strettamente ebraici e monoteistici. Nel secondo secolo diventa biunitario. E a partire dal terzo sempre più unitario. Ma soltanto nel quarto secolo si comincia a considerare lo Spirito Santo come una ipostasi specifica con valore proprio, a superare la binità della chiesa primitiva fino al punto in cui nel 381, nel secondo concilio di Costantinopoli, contro una forte resistenza di tutta una serie di Padri della chiesa, si canonizza la triunità divina della dottrina trinitaria ormai compiuta. E quanto incerta fosse la base linguistica su cui si fondava la personificazione dello Spirito Santo, ce lo attesta lo stesso Girolamo: “Ma lo Spirito è di genere femminile in ebraico, maschile in latino, neutro invece in greco".
Già nel quinto secolo i cosiddetti pneumatomachi, come si chiamavano coloro che non intendevano riconoscere allo Spirito l’eguaglianza ontologica che esiste fra Dio-Padre e Dio-Figlio, con disprezzo dicevano che il nuovo dogma tramutava, in realtà, Dio-Padre in “Nonno” dello Spirito Santo.
“Indivisibilmente distinti, uniti nella diversità, Uno in Tre: è questa la divinità e i Tre sono Uno". Leggendo questo Credo di Gregorio di Nazianzo (del 6 gennaio 381), che ancor oggi fa parte della liturgia ecclesiastica, con Hans Küng verrebbe la voglia di deplorare questa “speculazione non biblica, elaborata in modo estremamente astratto, dei trattati scolastici", come pure "l’ellenizzazione del messaggio originario cristiano ad opera della teologia greca”, e concordare con lui quando parla della "vera preoccupazione di parecchi cristiani e di fondate difficoltà che ebrei e musulmani" trovano nello scoprire in queste formule “la fede pura e semplice nel Dio Uno". Durante le sanguinose guerre di religione che nei secoli IV e V all'interno della cristianità provocarono migliaia e migliaia di morti, cristiani per mano di altri cristiani, in nome della Trinità, avvenne - come da tempo ormai lo studio della Bibbia ha provato - che i trinitari inserirono il loro famigerato “comma johanneum" nella prima lettera di Giovanni: “Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono un'unica cosa".
Forse Goethe avrà pensato a questo passo, che non compare nella prima traduzione della Bibbia lasciataci da Lutero, quando il 4 gennaio 1824 diceva ad Eckermann: “Io credo in Dio e nella natura, nella vittoria di ciò che è nobile su ciò che è scadente. Questo però non bastava alle anime pie. E io dovrei credere che tre sono uno e uno tre. Ma ciò contrasta con il sentimento di verità della mia anima, né riesco a capire quale vantaggio, anche minimo, mi potrebbe venire da questa credenza”.
Claus Westermann sembra dello stesso avviso quando, nella sua raccolta di scritti sulla teologia cristiana, non molto tempo fa scriveva: “Il problema del rapporto tra le persone della Trinità e quello della divinità e umanità nella persona di Cristo. come problema che investe dei rapporti ontologici, poteva sorgere soltanto quando l'Antico Testamento aveva ormai perso la sua importanza per la chiesa del primo cristianesimo. Dal punto di vista strutturale le questioni cristologiche e trinitarie sono analoghe alle questioni mitologiche sul rapporto fra le divinità del pantheon“.
Per quanto riguarda la formula trinitaria nella chiusa del vangelo di Matteo, già nel 1901 F.C. Conybeare aveva dimostrato che essa manca in tutti gli scritti e copie di Eusebio, stesi prima del concilio di Nicea che si svolse nel 325.
Il testo originale più attendibile del comando missionario di Gesù l'ha ricostruito David Flusser in base ad analogie rabbiniche e manoscritti della biblioteca di Cesarea: "Andate e fate in mio nome discepolo tutte le genti, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato"» (ivi, pagg, 26-29). Ma se anche il passo fosse autentico, ciò non fornirebbe alcun argomento al dogma trinitario.
* Così come fanno molti esegeti e studiosi, Pinchas Lapide spiega questo passaggio dall'azione di Dio alla personificazione (ipostatizzazione) dei suoi attributi: «Questo Spirito di Dio, infatti, per me non va ipostatizzato né gli si deve riconoscere un'esistenza peculiare, ma - ebraicamente - è un'emanazione di Dio, o in altre parole un'irradiazione dell'unico Dio, ed è così integralmente una parte di Dio come lo sono ad esempio la Parola di Dio, l’Amore di Dio o la Misericordia di Dio. Seguendo questa logica come ebreo potrei anche ipostatizzare la Misericordia e riconoscere ad essa un'esistenza peculiare. Ma per me suonerebbe bestemmia. Pe me questo Dio, con tutti i suoi attributi, è l'Uno ed Unico» (ivi, pag.51).
«Nel giudaismo ogni speculazione messianica rimane dunque piuttosto "funzionale" che “personale”, perché ogni giorno tutti gli ebrei credenti pregano perché il Messia venga, ma nessuno ha mai pregato ancora il Messia. Questa strumentalità del Re-Redentore ha consentito ad alcuni luminari del rabbinismo medievale - costretti da una chiesa trionfalistica, la quale ricorreva a tutti i mezzi del potere per dimostrare il proprio stato di redenzione, ad entrare in diatriba - di rinunciare alla fede nel Messia come colonna portante del giudaismo. Anzi, nel gergo del cristomonismo militante delle autorità ecclesiastiche si giunse persino ad una specie di antimessianismo ebraico, che poteva dire:
«Dopo la schiavitù dell'Egitto la redenzione venne con Mosè. Dopo la schiavitù di Babilonia la redenzione venne con Daniele, Anania, Misaele e Azaria. Poi ci furono le persecuzioni degli elamiti, medi e persiani, e la redenzione venne con Mardocheo ed Ester.
Dopo la schiavitù della Grecia la redenzione venne con gli asmonei e i loro figli, che in seguito vennero fatti prigionieri dai romani. Ma allora gli israeliti dissero: Siamo stanchi di venir redenti e sottomessi, redenti e di nuovo sottomessi. Non vogliamo più alcuna "redenzione" per mano di uomini. La redenzione viene soltanto da Dio» (Midrash Tehillim su 36,10).
Così, poco a poco, il cristianesimo divenne una religione del chi, le cui questioni di fondo riguardano la natura della divinità: chi è il Creatore dell'universo? chi è suo figlio? chi è il vero cristiano?
Il giudaismo fu e rimane invece prevalentemente una religione del che cosa, la quale rinuncia alle profonde questioni sul chi e più pragmaticamente spera di stabilire che cosa Dio abbia fatto sulla terra, che cosa risponda alla sua volontà e - nel caso più ardito - che cosa pensi di fare con noi» (ivi, pag. 76).
Dialogando con il teologo Moltmann, Pinchas Lapide conclude: «Lei dovrebbe però distanziarsi dal trinitarismo filosofico dei primi concili della chiesa, dall’opera di una scuola di eccellenti teologi greci, o meglio filosofi greci da poco battezzati e che hanno fatto ciò che Agostino candidamente confessa quando dice di aver cambiato la sua filosofia con una "migliore", cioè quella del cristianesimo. Noi dobbiamo cioè prendere distanza da questi signori, per i quali l'ebreo Gesù era sostanzialmente estraneo, e dovremo ritornare invece al Golgotha, questo sì, senz'altro protogiudaico, sia come evento che nelle sue interpretazioni originarie. Per me, giudaico-originario e giudaico-cristiano rimane pur sempre giudaico! Qui troveremo forse quel punto d'appoggio che, per dirla con Blaise Pascal, non è il Dio dei filosofi ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (ivi, pag. 55).
* Nel nostro laboratorio teologico ci sono stati utili strumenti molto vari e anche molto diversi per impostazione teologica. Per parecchi adulti è stata quasi una scoperta ripercorrere, sia pure sommariamente, le vicende storiche nelle quali si è sviluppato il dibattito cristologico e trinitario. Ci siamo serviti di RAYMOND KOTTYE-BERND MUELLER, Storia ecumanica della Chiesa, Vol. I. Chiesa Antica e Dizionario di Teologia (a cura di Giuseppe Barbaglio e Severino Dianich, Edizioni Paoline. Alba 1976), che porta una ampia bibliografia, sia pure ormai poco aggiornata: H. KUNG. Essere cristiani. Mondadori, Milano 1976; YVES CONGAR, Credo nello Spirito Santo, Vol. I-II-III, Queriniana, Brescia 1981. Particolarmente illuminante anche tutto il dibattito sul palamismo e i recenti tentativi (poco convincenti, in verità) di ricondurlo nell'ambito della teologia vincente o maggioritaria. E come non ricordare gli origenisti, gli iconoclasti, i pauliciani? Il lettore perdoni questi accenni che si prefiggono soltanto di stuzzicare l'appetito della ricerca e di destabilizzare la troppo diffusa convinzione che le formulazioni dogmatiche risalgano alle origini e non siano invece il frutto di lunghe battaglie e tortuose vicende. Pagine stupende sulla storicità e sulla relatività del dogma si trovano nel volume di Leonardo Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1983, pag. 133 e seguenti. Si noti che relatività delle formulazioni dogmatiche non significa relativismo.
* “In questo riferimento a Dio e completa dimenticanza di sé, a quel Dio che Gesù chiamava suo Creatore e Padre, sta la definizione, cioè l'autentico significato di Gesù” (Ed Schillebeeckx, Le questione cristoiogica. Un bilancio. Queriniana, Brescia 1980, pag. 161).
* Come il lettore può constatare, la comune fede cristiana qui si sottopone alla fatica e al tentativo di parlare in termini accessibili all'uomo e alla donna di oggi, facendo prevalere la categoria di evento su quella di ousìa-substantia. Si tratta di uno schema concettuale che, anche in questioni cristologiche, non pensa più in termini di essenzialità statica, ma di un accadere dinamico. In questo senso la attuale ricerca si muove, se ben comprendiamo, in una direzione che è più vicina culturalmente e più consonante con la riflessione biblica. «Si è quindi salvata l'intenzione biblica fondamentale delle antiche formule di fede, mutandone però la forma, il modo di pensarla» (H. KUNG, Cristologia e infallibilità, in CONCILIUM 1980/8; si veda tutto l'articolo perché descrive il compito del teologo e della comunità cristiana di fronte all'esigenza di “dire oggi" l'annuncio cristiano). Davvero non possiamo pensare di imprigionare Dio nelle parole deboli delle nostre vecchie formulazioni di fede. Esse sono certamente necessarie e restano utili fino al giorno in cui siamo coscienti della loro precarietà.
* Ovviamente a questo punto in comunità si impone una riflessione cristologica approfondita. Per una bibliografia estesa rimandiamo a "Alcune riflessioni sui miracoli", a cura della comunità cristiana di base di Pinerolo (corso Torino. 288 - 10064 PINEROLO). Soprattutto G. WERMES, Gesù l’ebreo, Borla, Roma 1983. Questo volume costituisce, a nostro avviso, una adeguata risposta ai vecchi studi di Alois Grillmeier, ora editi dalla Paideia (e che rappresentano comunque un significativo contributo alla ricerca ed una grande fonte di materiale e di informazione), e al volumetto di Franco Ardusso, Gesù di Nazareth é Figlio di Dio?, Marietti, Casale Monferrato 1980: un'opera che si muove in un ambito totalmente tradizionale. Il lettore potrà trovare un utilissimo strumento in "Gesù, Figlio di Dio?", Concilium 3/1982, editrice Queriniana.
* Chi ama esplorare il significato primitivo e genuino delle parole degli episodi tramandati dagli evangeli per ottenere una comprensione più piena del Gesù storico, non può mancare all'appuntamento con il volume di G. WERMES citato prima, un libro esemplare e rigoroso nel metodo e nei contenuti.
Nella storia dell'esegesi e nel dibattito cristologico da molti anni il notissimo Autore di queste pagine si è inserito con una competenza singolare. I suoi studi, in larga misura prodotti negli anni dell'insegnamento ad Oxford, non avevano ancora trovato alcuna diffusione in Italia. Grande merito dell'editore Borla è stata questa oculata scelta di un autore e di un'opera che non potrà passare inosservata. Dietro queste pagine spira un vento sostanzioso e solido: anni di ricerche meticolose, di confronti serrati, di studi storici e filologici.
Gesù l'ebreo è la prima parte di una trilogia: vuole ricostruire lo scenario dell'attività di Gesù e definire quale tipo di ebreo egli sia stato. La seconda ricerca, "Il Vangelo di Gesù l'ebreo“, che è ancora in stampa, tenterà di ricostruire il suo autentico messaggio. L'autore nella prefazione al I volume ci parla già di una terza opera, ancora senza titolo, nella quale studierà la trasformazione dell'uomo Gesù di Nazareth nel Cristo divino della formulazione della letteratura neotestamentaria e delle formulazioni dogmatiche successive.
Intanto abbiamo tra le mani questo primo volume che si legge a piccoli sorsi, ma con enorme profitto. L'opera si muove nella direzione della cristologia “funzionale“ già ben nota attraverso gli scritti di Schillebeeckx, di Kung e di molti altri studiosi, ma egli - da buon ebraista - porta motivazioni ed approfondimenti inediti, il tutto in un linguaggio che soddisfa il lettore di cultura media e non delude lo studioso che trova rimandi, citazioni, confronti con un corredo bibliografico vasto e qualificato. Non tutto viene trattato con la stessa rilevanza e completezza, ma il volume conserva dalla prima pagina all'ultima un livello altamente apprezzabile. Ne risulta una rivisitazione della formula di Nicea e una precisazione della espressione “figlio di Dio" applicata a Gesù. Sarebbe certamente fare un torto a questo tipo di cristologia accusarla di riduzionismo o di “eccessiva umanizzazione“ di Gesù. Solo chi non ha capito, in una profonda conversione di mentalità e di linguaggio, l'enorme apporto che questa nuova visione ebraico-biblica può dare alla nostra fede cristiana, può temere che questa strada significhi la "dissoluzione" o la "diminuzione" della originalità e del posto che Gesù occupa nel cuore dell'esperienza cristiana.
«È vero che Gesù, nel Nuovo Testamento, è chiamato spesso figlio di Dio ed è altrettanto vero che persino lettori non cristiani dei Vangeli, volenti o nolenti contagiati dal dogma della Chiesa, sono portati ad associare il titolo figlio di Dio con la nozione di divinità. Entro e fuori del cristianesimo, lo si accetti o non come articolo di fede, si suppone che gli Evangelisti, applicando questo titolo a Gesù, intendano proclamarlo uguale a Dio. In altre parole vi è la tendenza, conscia o meno, ad insinuare nei primi scritti cristiani e, ancor più in là, in una tradizione sorta sul suolo giudaico, una dottrina quanto mai estranea al giudaismo, quale la dottrina del concilio di Nicea: «Gesù Cristo, l'unigenito figlio di Dio... Dio da Dio... della stessa sostanza del Padre».
Per valutare correttamente questo titolo cristologico, che è l’ultimo e di più vasta risonanza, occorre proporre e risolvere le solite questioni d'ordine esegetico, storico e cronologico. I quesiti non sono pochi, e cioè: è possibile dimostrare dalle testimonianze del Nuovo Testamento che Gesù stesso abbia preteso la filiazione divina? Fu essa accettata e affermata dai suoi discepoli immediati, i Giudei di Galilea? Oppure il titolo venne alla luce tra i discepoli della seconda generazione nel giudaismo palestinese o ellenistico? Infine quale fu il suo significato originario? Subì forse delle trasformazioni sostanziali nel passaggio dal mondo giudaico a quello etnico-ellenistico? Alla prima domanda rispondiamo che, se si ammette che Gesù abbia respinto il titolo di "Messia il figlio di Dio" sia nella confessione di Pietro che alla domanda del Sommo Pontefice, non vi sono indizi che autorizzino a pensare che Gesù si sia arrogata tale eccelsa relazione con Dio. Gli autori, che non vogliono rinunciare a credere che Gesù pensava di essere "il figlio di Dio in un senso eminente”, devono per forza fare affidamento su quella che è senza dubbio la fase più recente dello sviluppo del titolo, vale a dire, la sostituzione di “il Figlio" con figlio di Dio e pretendere inoltre che essa sia storicamente autentica. Tuttavia, se si eccettuano pochi conservatori, nessuno tra gli esegeti più aperti, indipendentemente dalla loro denominazione cristiana, osa compiere tale passo.
Per citare pochi esempi, tra le posizioni più recenti degli Studiosi, B.M.F. van Iersel è dell'opinione che Gesù non parlò mai di sé come figlio di Dio, e C.K. Barret afferma senza esitazione che la dottrina della sua filiazione divina non ebbe parte alcuna nella predicazione pubblica di Gesù. H. Conzelmann rileva che il titolo non appare mai nei racconti, ma soltanto nelle confessioni e, dopo accurato esame, conclude che nessuno degli esempi può essere ritenuto storico e che, «a giudicare dai testi che abbiamo, Gesù non fece mai uso del titolo». Gli studiosi del Nuovo Testamento, sulla scia di Bultmann, distinguono due fasi nell'evoluzione del concetto di figlio di Dio. La prima fase è assegnata alla comunità palestinese, in cui l'antica formula orientale dell'adozione divina dei re: «Tu sei mio figlio», era applicata a Gesù quale Re Messia. La seconda fase è rappresentata dalla predicazione della chiesa ellenistica. Qui il concetto giudaico di figlio di Dio subì una profonda metamorfosi, nel senso che esso servì a definire non più la missione di Gesù ma la sua natura, concepita sul modello della razza semidivina e semiumana delle divinità della mitologia classica, note per le loro prodezze ed atti salvifici.
Ferdinand Hahn ritiene che la fusione degli elementi messianici ed ellenistici della nozione di figlio di Dio abbia attraversato tre stadi. In primo luogo venne adoperato dalla comunità palestinese post-pasquale quale titolo che ben si addiceva ad un Messia il quale, conclusa la sua missione sulla terra, era stato adottato da Dio ed intronizzato nei cieli. Il secondo passo fu compiuto dal giudeocristianesimo ellenistico il quale, volgendo lo sguardo dall'esistenza celeste di Gesù alla sua vita sulla terra, vide in lui il taumaturgo ed esorcista ricco di doti soprannaturali, la cui concezione nel seno di una vergine era stata operata da un intervento diretto di Dio. Infine, la filiazione divina di Gesù fu intesa soprattutto quale risultato di una apoteosi o deificazione, che comportava anche la preesistenza ed una specie di filiazione fisica risultante dalla parte che veniva attribuita a Dio nel suo straordinario concepimento.
Per esplorare ulteriormente le implicazioni del titolo figlio di Dio ed anche per gettare nuova luce sul suo significato originario, conviene ora cercare paralleli nel mondo giudaico, biblico e post-biblico, nonché in quello greco-romano prima di passare ad esporre ciò che i Vangeli ci offrono. Per completezza ci soffermeremo poi sull'abitudine di Gesù di rivolgersi a Dio. o parlare di lui, chiamandolo "mio padre". Dedichiamo infine un excursus alla questione della nascita verginale» (pagg. 225-226).
Ci siamo presa la libertà di questa lunga citazione per fornire al lettore un assaggio delle problematiche che il libro esplora con grande impegno. Ci sono certamente aspetti e particolari molto discutibili, ma la direzione della ricerca ci sembra graniticamente solida e fecondissima.
* Interessanti affermazioni al riguardo si trovano in VINCENZO DAMARCO, Commento ai vangeli, Sarzana 1975, pag. 353: «Sarebbe troppo affrettato concludere che questo titolo (= Figlio di Dio) è usato da Marco nello stesso senso che lo usiamo noi. Siamo qui, in questo vangelo, solo agli inizi di quel tragitto che porterà al concetto giovanneo di Logos. La sensibilità metafisica degli ebrei non era tale da preoccuparsi della “natura” di una persona; invece era propensa a definirne la funzione. Gesù è colui che esige obbedienza. esercita una signoria in nome di Dio. La categoria ebraica per esprimere questa funzione è quella di "figlio".
* Pertanto nei secoli è nata una «dottrina su Gesù Cristo che s'è servita, per parlarne, d'un linguaggio che presuppone alcune rappresentazioni filosofiche e teologiche e certe immagini dell'uomo e del mondo che sono già definitivamente superate. La teologia ha parlato di Gesù in termini ontologici (= che concernono l'essere in quanto tale). Preoccupata di definirne la natura - ciò che Gesù è in se stesso - ha relegato in secondo piano ciò che egli ha fatto e fa per noi... Non interessa tanto determinare la natura di Gesù, quanto scoprire ciò che egli è, fa e significa per la liberazione degli uomini. Solo se ci si pone nella prospettiva di ciò che egli fa, ha senso domandarci ciò che egli è: questo è l'itinerario che hanno percorso gli apostoli e i credenti delle prime comunità cristiane. Quando essi affermano che Gesù è la parola di Dio o è la vita o il figlio di Dio, non vogliono determinare la sua natura ma solo quanto egli è in realtà per il mondo e per gli uomini: il rivelatore del disegno di Dio per e con l'uomo, il dispensatore d'una nuova vita e il glorificato per il suo atteggiamento e per il suo comportamento con gli uomini. Di fronte ad una cristologia che esprime il mistero di Gesù in termini ontologici (natura, sostanza, persone, unità, ecc.) e che, di fatto, esclude questo Gesù dalla storia della salvezza come processo di liberazione dell'uomo, è necessario immettere Gesù Cristo, in modo totale, nella dinamica del creato come pienezza della manifestazione di Dio al mondo, servendosi della stessa creazione... Altrimenti la fede viene sostituita da una adesione ideologica» (J.R. GUERRERO, L’altro Gesù, Borla, Roma 1977, pag. 39). «Man mano che ci allontaniamo dalla prima patristica, l'ontologia passa in primo piano e lascia in ombra l'”economia” (cioè la realizzazione del piano salvifico di Dio). In un certo senso si tratta di un processo inevitabile; è lo stesso processo che sta trasformando la struttura dei simboli di fede da un'elencazione di fatti salvifici a un'elencazione di verità» (J.I. GONZALEZ FAUS, La humanidad nueva, Ensayo de cristologia II, Madrid 1974, pag. 480). Non sarà difficile, per chiunque abbia familiarità con la storia dei sacramenti, rileggere una vicenda "parallela" che dalla concezione simbolica registra un progressivo processo di “cosificazione", di "produzione" della grazia. Si veda, al riguardo, J.M. CASTILLO, Simboli di libertà, Cittadella Editrice, Assisi 1983.
* «Appare evidente come queste formulazioni trasudino da tutti i pori la mentalità del mondo greco donde trassero origine. I concetti di "consustanzialità", di “natura”, di "persona", comuni nel linguaggio del mondo greco, sono sconosciuti dal linguaggio biblico, come è sconosciuta la differenza di nature. Il genio greco, invece, era attratto dai concetti. Non possiamo assolutamente condannare il modo di comportarsi di questi credenti, perché cercarono di dare risposta, con l'aiuto delle categorie mentali del loro tempo, ai nuovi problemi e ai nuovi interrogativi che venivano posti su Cristo. Questi credenti volevano attualizzare, nel linguaggio del loro tempo, il messaggio biblico che avevano ricevuto, e desideravano formulare la loro "professione di fede". Tuttavia alcuni credenti dell'epoca, di grande statura, affermavano continuamente essere una temerarietà adoperare dei concetti umani per spiegare realtà così profonde. In questo modo s'esprime il teologo Ilario del IV secolo: “Ma gli errori degli eretici e degli empi ci costringono a fare cose che non dovrebbero essere lecite, ad ascendere vette rischiose, a parlare di cose inesprimibili, a osare argomenti vietati... Siamo costretti ad allargare il nostro umile discorso a quelle cose che sono inesprimibili e, dall'errore altrui, siamo forzati a correre il rischio dell'errore. In tale modo, ciò che avrebbe dovuto essere custodito nel sacrario della nostra coscienza, viene ora esposto ai pericoli che il linguaggio comporta".
È normale, quindi, che la chiesa di quel tempo, sotto l'incalzare delle eresie, si sentisse obbligata a lasciare da parte il linguaggio biblico e a servirsi della terminologia e degli schemi mentali della filosofia greca.
Quest'ultimo fatto portò con sé tutta una serie di problemi. Mentre nel Nuovo Testamento troviamo una diversità di categorie, di denominazioni e di sfumature nel tentativo di definire l'identità di Gesù, dimostrando con ciò la relatività di qualsiasi nome o modello a lui applicati, nei secoli posteriori i greci privilegiarono un solo titolo, quello del Figlio di Dio. Quando un titolo acquista tale carattere di monopolio, perde il significato che aveva originariamente consistente nel cercare di spiegare, assieme ad altri nomi, la realtà “Gesù” che sfugge a una totale comprensione. In simile situazione di monopolio si cerca d'identificare Gesù esclusivamente con questo titolo di Figlio di Dio, e di spiegare tutto quanto riguarda Gesù in base al significato di questa espressione. Generalmente, è questa la posizione dei cristiani d'oggi quando pensano e parlano di Gesù. Ma la varietà dei vangeli che ci parlano di Gesù sotto sfaccettature diverse e la varietà dei titoli applicati a Gesù, stanno a dimostrare che Gesù di Nazareth sfugge a qualsiasi proposito di una identificazione diretta e precisa. La pretesa dei greci fu analoga alla nostra oggi: "possedere", cioè, un'immagine di Gesù che possa spiegare una volta per sempre tutto il suo mistero. A questa pretesa dobbiamo rispondere che è possibile “possedere” Gesù attraverso la via dell'esperienza e non quella del concetto. Mentre i greci erano preoccupati di definire la natura e l'essenza di Gesù e il suo procedere da Dio, senza cercarne la connessione con la nostra esistenza concreta, alla prima comunità cristiana interessava soprattutto comprendere la funzione che Gesù svolse fra gli uomini, la vicinanza di lui, prendendo coscienza che Gesù era posseduto dal potere di Dio. Era questo che bisognava proclamare a tutto il mondo.
Dobbiamo relativizzare le definizioni di quei concili interpretandole alla luce della rivelazione biblica e dello "spirito dell'epoca": solo partendo da tale interpretazione quei contenuti si de-cosificheranno, perdendo la freddezza e la rigidità accumulate nel corso dei secoli e ci mostreranno come delle comunità cristiane abbiano adattato e reinterpretato il vangelo, facendolo calare in modelli culturali e linguistici concreti. La nuova coscienza linguistica che oggi emerge ci deve aiutare a tradurre il principio catechetico secondo cui la catechesi deve reinterpretare il vangelo e rielaborare le formulazioni antiche della fede, partendo dall’esperienza concreta dell’uomo. Per rispondere a questo compito, la catechesi deve servirsi di un'ermeneutica che interpreti simultaneamente la verità della fede nel contesto culturale in cui il credente si trova immerso, e il senso della vita del credente stesso, basandosi sui valori proclamati dal vangelo. La rielaborazione delle antiche formule di fede, come furono trasmesse dagli antichi concili, ci pone il problema dell'interpretazione dei dogmi e della loro immutabilità. Nelle decisioni finali del congresso teologico tenuto a Bruxelles nel 1970 su “L'avvenire della chiesa" si afferma che “il vangelo, al quale la chiesa rende testimonianza nel mondo, non può essere espresso senza tener conto dell'apporto proprio di questo mondo... Le grandi confessioni e definizioni cristologiche del passato conservano un significato permanente anche per la chiesa d'oggi. Ma non si possono tuttavia interpretare senza tenere conto del loro contesto storico, né ripeterle semplicemente in modo stereotipato. Per raggiungere uomini d'altre culture e d'altre epoche, il messaggio cristiano deve essere continuamente riespresso in formulazioni veramente nuove". La difesa dell’ortodossia deve consistere non tanto nella conservazione completa delle formule di fede quanto nel fatto che la proclamazione di tale fede sia significativa, efficace e salutare per l’esperienza del credente. L'efficacia comunicativa d'una verità di fede è in rapporto diretto con la significazione di tale verità per un uomo che si regola su alcune categorie culturali determinate» (J.R. GUERRERO. L'altro Gesù, Borla, Roma 1977, pag. 216-218).
* A questo proposito R. Echarren osserva: «Bloccare la verità assoluta con rappresentazioni d'epoche passate significa fermare la storia, uccidere il dinamismo dell'uomo religioso o del sentimento religioso che è nell'uomo» (Trasmissione della fede e strutture sociali attuali, in CONCILIUM 1970/3, pag. 25). K. Rahner afferma: «Qui abbiamo un criterio importante per l’ortodossia vera e vivificante del messaggio cristiano: se essa si risolve in una monotona ripetizione delle vecchie formule, una tale monotonia proverebbe ch'essa non tiene conto del mutamento storico della situazione dell'uditore. Ora, una buona parte dell'insegnamento ufficiale della chiesa. in quanto si presenta come espressione odierna del messaggio cristiano, non risponde a questo criterio» (Qual è il messaggio cristiano? in CONCILIUM, Il libro del congresso, p. 110. Dobbiamo liberare Gesù da una «interpretazione specificamente occidentale», come dice Geiselmann.
* «Nel 1973 la Sacra Congregazione per la dottrina della fede pubblicava la dichiarazione Mysterium ecclesiae destinata a precisare la vera concezione cattolica dello sviluppo dei dogmi. Essa aveva di mira certi campioni dell'acculturazione del linguaggio della fede, cioè della sua traduzione in termini della cultura europea contemporanea, per renderlo intelligibile all'uomo occidentale di oggi... Ciascuno può comprendere la ripugnanza di un papa a dichiarare caduche e sorpassate delle formule di fede solennemente definite da celebri concili generali: Nicea, Calcedonia, Efeso, Trento, Vaticano I. Oppure dai papi: immacolata concezione, infallibilità pontificia, assunzione corporea della Vergine Maria, ecc. Ma si può anche capire l'angoscia di alcuni teologi che sono anche pastori i quali constatano l’indifferenza sempre maggiore dell’intellighentia europea ed americana di fronte ad un linguaggio cristiano di cui non afferrano più il senso, data la loro ripugnanza per il gergo aristotelico-tomista o per le sottigliezze bizantine di Nicea e di Calcedonia. Secondo Paolo VI non vanno toccati termini come ousìa, homoùsios, natura, sostanza, persona, accidente, ecc., in quanto essi veicolano la quintessenza della verità rivelata. Hans Kung, Edward Schillebeeckx ed altri ancora, intraprendono al contrario un aggiornamento dei concetti e dei termini, condizione essenziale, secondo loro, della fedeltà al senso delle formule di fede. Il papa chiede un'adesione irrevocabile ad un enunciato immutabile anche nella sua forma, essi invece pensano che nessuna espressione umana - foss'anche biblica o dogmatica - può darci in maniera adeguata la verità divina; essa ne riflette qualcosa, ma è sempre limitata a causa del suo condizionamento geografico, ideologico, filosofico, culturale e temporale. Quando si esce da un quadro ben determinato come questo, bisogna rivedere il proprio linguaggio» (MEINRAD HEBGA, in Concilium 1/1984, pag. 99).
Diventa sempre più evidente - dal punto di vista storico e scientifico - che tutti i nostri linguaggi sono particolari, datati, situati. Voler caricare di eternità o di onnivalenza un qualsiasi linguaggio è la tipica presunzione magisteriale cattolica; è un atteggiamento di paura, proprio di chi teme che la pluralità della teologia comporti la dissoluzione e la frantumazione della fede. È per questi stessi motivi che anche i linguaggi teologici nuovi debbono essere lucidamente coscienti della loro parzialità, della loro provvisorietà, del loro “essere al di sotto" della verità alla quale vogliono servire. I linguaggi capaci di comunicare sotto tutti i cieli e di resistere al logorio dei secoli non esistono, se non nei deliri dei potenti che sono diventati vittime dei loro desideri di onnipotenza. Tali linguaggi diventano ideologie paralizzanti che finiscono nella adorazione delle formule e, con l’ossessione dell'ortodossia, bloccano la ricerca della verità.
* In particolare, per quanto riguarda la formulazione trinitaria ci vediamo ancora una volta costretti a rimandare il lettore ad una pagina del teologo cattolico Hans Kung: «La dottrina teologica che ne è scaturita, la dottrina della "Trinità" intradivina, che cerca, con un apparato concettuale ellenistico, di pensare Padre, Figlio e Spirito nella loro autentica diversità e nella loro unità indivisa, implica notevoli problemi e purtroppo non è quasi più compresa dall'uomo d'oggi... È nota la formula ellenistica che, a conclusione di un iter speculativo estremamente complesso, in parte contraddittorio e comunque oltremodo lungo, assunse i suoi contorni classici per merito dei tre Cappadoci (Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa) nel corso del IV secolo... Sorse progressivamente l'edificio di una speculazione sulla Trinità intellettualmente ambiziosa, una sorta di matematica trinitaria superiore. che nonostante tutti gli sforzi per conseguire la massima chiarezza concettuale, non pervenne a soluzioni durature. Si direbbe quasi che questa speculazione greca, allontanatasi dal suo terreno biblico e libratasi audacemente verso le vertiginose altezze del mistero di Dio, abbia rivissuto il dramma di Icaro, il figlio di Dedalo, le cui ali, fabbricate con penne e cera, non ressero il calore di un sole troppo vicino» (in Essere cristiani, Mondadori, Milano 1986, pag. 536). Kung, raccogliendo i risultati di un enorme lavoro esegetico degli ultimi cento anni, passa in rassegna i dati biblici: in nessun testo del Nuovo Testamento, prescindendo da una lettura ingenua e prescientifica, «si trova una vera e propria dottrina trinitaria su un Dio in tre persone (modi di essere) quale verrà in seguito enunciata» (pag. 537). Le stesse formule diadiche (di Padre e Figlio) e triadiche (di Padre, Figlio e Spirito) non sono tanto un discorso ontologico su Dio, ma un tentativo di descrivere l'agire di Dio, la sua dinamica salvifica e di coordinare Padre, Figlio e Spirito senza affatto metterli sullo stesso piano: «Nel Nuovo Testamento si ha indiscutibilmente una unità nell'evento della rivelazione: in cui non si deve eliminare la diversità dei "ruoli", non si deve invertire la "successione" e soprattutto non si deve perdere mai di vista l'umanità di Gesù. Anche quando lo stesso vangelo di Giovanni parla del Padre, Figlio e Spirito, anche quando Dio è definito spirito, luce e amore, non si tratta di affermazioni ontologiche su Dio in sé e sulla sua intima natura, sull'essere statico di un Dio trinitario. Si tratta invece, in tutto il Nuovo Testamento, di affermazioni sulle forme e i modi della rivelazione di Dio: si tratta del suo agire dinamico nella storia, del rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. Le formule triadiche del Nuovo Testamento configurano una teologia trinitaria non “immanente", ma “economica” (cioè funzionale, in funzione della salvezza, ndr), non un'unità-trinità essenziale intradivina (dunque immanente) in sé, ma un'unità in funzione della storia della salvezza (dunque economica) di Padre, Figlio e Spirito nell’incontro con noi» (H. KUNG, Essere cristiani. pag. 539). Non si tratta, dunque, di gettare via un dogma, ma di interpretare per il presente in forma differenziata la dottrina classica della Trinità, con un vigoroso ritorno alle fonti bibliche.
* Interessanti osservazioni si trovano in KARL H. SCHELKLE, Teologia del Nuovo Testamento, Vol. II, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980, pag. 340: «Le numerose serie trinarie delle lettere neotestamentarie non costituiscono ancora formule vere e proprie e non sono ancora concepite dogmaticamente... La successione della serie non è ancora fissata come Padre, Figlio e Spirito. Le proposizioni non sono affermazioni ontologiche e metafisiche sull'essenza statica di un Dio trino, ma affermazioni sull'operare dinamico di Dio nella rivelazione e nella storia». Tutto il volume è prezioso, specialmente le voci “preesistenza” e "figlio di Dio".
* Ma c'è di più. La "valenza" triadica, il dinamismo triadico così vivamente presente nell'unico evento salvifico sono tutt'altro che insignificanti. Il Dio biblico non è solipsista, chiuso nella sua "monarchica" torre d'avorio: Dio è per noi relazione, dialogo, amore che si comunica e trabocca. L'unità-unicità del Dio biblico è quella sorgività inesauribile che ci inonda con le sue acque salutari. Nello stesso tempo Dio è movimento che spinge a uscire dalla prigione narcisista del proprio io. Dire Dio significa dire relazione, comunione, apertura al tu. In certo modo possiamo dire che il cristiano non può, se entra nella via di Gesù, non aprirsi a questo ritmo triadico per far posto al dinamismo di Dio. Solo l'ossessione maschile e l'ossessione teologico-razionalistica hanno potuto fare del Dio uno, un Essere “monarchico", autoritario, sessista prodotto ad immagine e somiglianza di una chiesa che ha troppo spesso la presunzione di possedere la carta di identità di Dio stesso e che da secoli è prigioniera della maschilità. Forse bisogna riprendere la via umile del linguaggio biblico che è allusivo, "femminile", simbolico. Si può parlare di Dio solo con parole povere, con parole deboli. La "simbolica trinitaria” è essenziale nelle sue valenze per la nostra fede: essa allude, contempla e tenta di esprimere la realtà profonda di Dio attraverso la sua azione. La unità di Dio è unità aperta, conviviale, unificante.
* Di grande utilità può risultare: Trasmettere la fede alla nuova generazione, in CONCILIUM 4/1984, Queriniana (via Pianarta, 6 - 25100 Brescia). Forse il lettore rimarrà sconcertato da talune piste di ricerca, ma «ciò che "appartiene" all'identità del cristiano - ciò che sostanzialmente costituisce tale identità - dev'essere continuamente "riscoperto" nelle irripetibili situazioni storiche» (J. WERBICK).
* Purtroppo in questi anni lo scontro, su questo terreno del linguaggio e delle formule di fede, sta acuendosi. Occorre lavorare in positivo, senza fracasso e con molta umiltà, ma anche senza paura.
* Non sarebbe ozioso domandarsi in che senso noi diciamo che Dio è "persona". Sono categorie culturali che noi abbiamo assunto nel tempo. È importante conoscere la loro ambiguità e inadeguatezza. «Dio non è certamente una persona nel modo in cui lo è l'uomo... Anche il concetto di persona è soltanto una cifra per indicare Dio. Dio non è la persona suprema tra altre persone. Egli trascende anche il concetto di persona: Dio è più che persona» (H. KUNG, Dio esiste?, Mondadori, Milano 1979, pag. 704). Dio è la realtà realissima di cui i nostri nomi non sono che una eco, un cartello indicatore. Ma è pur vero che tutti i nomi che usiamo sono talmente parziali ed ambigui da farci dubitare, a volte, della loro legittimità. Quando noi chiamiamo Dio con il nome di Signore, pur sapendo che questo appellativo ha una storia ed una valenza positiva, non corriamo anche il rischio di mettergli addosso un manto imperiale, di farci di Dio un'immagine monarchico-autoritaria? Quando poi applichiamo l'appellativo di "Signore" a Cristo, come non avvertire un certo stridore con i sentimenti e l’esperienza di quel Gesù di Nazareth la cui vita era totalmente estranea ad ogni ideologia regale e ad ogni tinteggiatura "signorile" ed imperiale? Aver fatto di Gesù “il Signore" non è stato funzionale ad una chiesa che si concepì come "la grande Signora“? Il linguaggio non è così neutrale come a volte ingenuamente possiamo pensare.
Forse non si tratta di bandire dal nostro vocabolario tutte le parole che possono suonare ambigue, ma, molto più semplicemente di essere lucidamente coscienti dei limiti entro i quali ci muoviamo e di non accontentarci mai del già detto. Anche su questo terreno la fantasia e la creatività sono le migliori compagne di viaggio della nostra fede. La testimonianza dei molti nomi di Dio che troviamo nella Bibbia è uno stimolo a proseguire la ricerca anche in base alle nuove esperienze che facciamo nella nostra vita della presenza e dell'azione di Dio nel mondo.
* Per un rinnovamento della cristologia è sempre più importante la conoscenza dell'Antico Testamento:
«Già nell’Antico Testamento il popolo di Dio veniva detto “figlio di Dio”, ma era chiamato così soprattutto il re di Israele, che all’atto dell’intronizzazione veniva proclamato “figlio di Jahvé”. Ora questo epiteto viene applicato a Gesù: mediante la risurrezione e la glorificazione egli, Gesù di Nazareth, viene “costituito Figlio di Dio”, secondo l’espressione desunta da un salmo. Qui indubbiamente non si allude alla generazione, ma soltanto alla posizione giuridica di prestigio di Gesù, non quindi a una fìgliazione fisica, come nel caso dei figli degli dei e degli eroi pagani, ma ad una elezione ed investitura da parte di Dio. Più di altri nomi, quello di “Figlio di Dio” doveva chiarire agli uomini di quel tempo quanto strettamente l’uomo Gesù appartenesse a Dio, quale rilievo avesse la sua posizione al fianco di Dio: non più nella comunità, nel mondo, ma ora di fronte alla comunità e al mondo, subordinato soltanto al Padre e a nessun altro» (H. Kung, 24 Tesi sul problema di Dio, Mondadori pag. 133).
«Per l’Antico Testamento figlio di Dio significa avere ricevuto una missione da Dio e averla portata a termine in un atteggiamento di obbedienza. Questo significato passa nel Nuovo Testamento, cosicché quando Gesù viene indicato come figlio di Dio, si fa riferimento alla missione che il Padre gli conferisce, all’obbedienza con cui Gesù assolve questa missione e alla reciproca confidenza e fiducia che si stabiliscono tra Padre e figlio. Essere il figlio di Dio richiede che si assuma un atteggiamento senza riserve di risposta alla chiamata di un Dio che convoca l'uomo a un’impresa di liberazione» (LR. Guerrero, L’altro Gesù, Borla, Roma 1977).
* Tutto il nostro linguaggio teologico acquista spessore nuovo, senza abbandonare o impoverire il messaggio delle formulazioni antiche: «È legittima la tradizione cristiana della mistica di Cristo, che a Nicea e Calcedonia ha trovato un'espressione adatta, benché entro le categorie concettuali della tarda antichità». (Ed. Schillebeeckx, La questione cristologica. Un bilancio, Queriniana, pag. 163).In questa luce:
«L’incarnazione di Dio in Gesù significa che in tutti i discorsi di Gesù, in tutta la sua predicazione, nell’intero suo comportamento e destino, hanno preso figura umana la Parola e la Volontà di Dio: in tutto il suo parlare ed agire, patire e morire, insomma in tutta la sua persona, Gesù ha annunciato, manifestato, rivelato la Parola e la Volontà di Dio. Egli, nel quale parola e volontà, insegnamento e vita, essere e agire coincidono perfettamente, è corporalmente, in figura umana, Parola, Volontà, Figlio di Dio». (H. Kung, 24 Tesi sul problema di Dio, Mondadori, 1980, pag. 134).
In termini concreti si può dire:
«Si noti bene che “Figlio di Dio” non significa altro se non l'uomo Gesù in quanto morto e resuscitato, in quanto avente peso salvifico per tutti gli uomini, in quanto centro del progetto di Dio. Quindi anche il famoso schema della preesistenza, che ci sembra così lontano dal Gesù di Nazareth, in fondo non è altro che un mezzo linguistico per poter sottolineare, in una determinata cultura, quella ellenistica, che in Gesù Dio si è espresso al massimo» (G. Barbaglio, Gesù di Nazareth dalla strada alla fede, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1980).
«Giovanni vede il rapporto tra Gesù e Dio in modo funzionale, come risulta chiaro dall’argomentazione addotta dal Gesù giovanneo (Gv.10, 34-38): per Giovanni Gesù è realmente uomo, ma in un rapporto del tutto singolare con Dio, una relazione che trascende di gran lunga qualsiasi altra. Chi conosce lui conosce il Padre (8, 19) e chi vede lui vede il Padre (14, 19). Ciò che Gesù dice e fa manifesta la sua persona, rivela cioè il mistero della sua unità vitale con il Padre. In questo senso la funzione è la sua stessa persona» (Ed. Schillebeeckx, Il Cristo. La Storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980, pag. 502).
* Questa impostazione ha richiesto, evidentemente, un profondo ripensamento su altri punti ed ha stimolato una vasta produzione biblica e teologica alla quale possiamo solo accennare rapidamente:
«Il Figlio di Dio rende Dio udibile e visibile più di chiunque altro o di qualunque altra cosa e pertanto è il primogenito di tutta la creazione (Col. 1, 15). Così egli è superiore a qualsiasi altra creatura. Ma resta inferiore a Dio. Quando Paolo in I Corinti 15, 27 applica al Figlio di Dio le parole «tutto ha posto sotto i piedi di lui» (Salmo 8, 7), egli eccettua Dio espressamente, concludendo: «quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti» (Bas Van Iersel, Concilium 3/1982).
Nello stesso modo possiamo dire che come «la preesistenza di Gesù come eterno Figlio di Dio è un modo ebraico ed ellenistico di esprimere il significato salvifico di Gesù» (Brian McDermott, Gesù Cristo nella fede e nella teologia, Concilium 3/1982, pag. 23). Così «l’unicità di Gesù di Nazareth, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, consisteva nell'essere colui che aveva ricevuto un appello particolare da Jahvé, a cui egli rispose nella sua storia particolare» (P.M. Van Buren, Il significato secolare dell’evangelo, Borla, Roma 1970). Diremo perciò ancora che l’identità di Gesù come Figlio è un'identità rispondente e ricettiva di fronte al Padre. e sottolinea il fatto che Gesù è il primo a ricevere l’offerta di salvezza di Dio, prima di diventare colui che offre la salvezza agli altri» (Brian McDermott, Gesù Cristo nella fede e nella teologia, Concilium 3/1982, pag. 25).
«L’antropomorfismo che ci può fuorviare considerando “Dio” come un nome proprio ha portato i cristiani a pensare che, se Gesù è veramente figlio di Dio, allora non può essere, per esempio figlio di Giuseppe. Ma si tratta di un errore. Dire che Gesù è il Figlio di Dio non comporta la negazione che era figlio (fisicamente, n.d.r.) di un altro» (Nicholas Lash, Riflessioni su di una metafora, Concilium 3/1982, pag. 39).